Esisteva un’utopia, un tempo, chiamata “sogno americano”. Una visione ormai sbiadita e superata dai tempi, ma che era ben viva negli anni ’50 e ’60 e che sopravvive ancora oggi, tenacemente aggrappata ai suoi simboli. Come la prima Corvette.
Sotto la guida di Bill Mitchell da ormai qualche anno, nel 1962 la Corvette di prima generazione aveva già perso molte delle cromature degli anni precedenti, tanto care al predecessore Harley Earl: la bocca del radiatore non portava più i famosi “denti” e il posteriore aveva già acquistato forme più moderne dall’anno precedente, passate in eredità alla successiva C2 quasi intatte.
Ma nonostante questo, la Corvette conservava ancora l’immagine patinata anni ’50; gli iconici fari doppi che si allungavano, costeggiando il cofano motore, fino al parabrezza avvolgente tipico dell’età d’oro del Drive-In erano ancora lì così come le fiancate concave, le tante bombature e quell’aria un po’ snob da diva di Hollywood (di quelle vere).
Gli interni non facevano eccezione ed erano tipici per la cultura “Space Age” degli anni ’50: la strumentazione incassata nelle tante rotondità della console, le razze del volante bucate come le carlinghe degli aerei del tempo, tanti particolari che richiamavano razzi e astronavi. Disegni che non tenevano granché in conto sicurezza ed ergonomia, dato che erano pensati soprattutto per stupire.
Sotto il cofano, le modeste origini della “Vette” erano un ricordo da anni e la vettura sfoggiava il leggendario V8 327ci Smallblock (5340cc) in versioni da 250, 300, 340 o 360 cavalli, quest’ultimo dotato di un’innovativa iniezione meccanica, accoppiati a cambi automatici Powerglide (previsti fino a 300cv) o manuali a 4 marce. All’ottima accoppiata motore-trasmissione si affiancava però un ponte rigido posteriore che, per un’auto sportiva, cominciava a mostrare la sua arretratezza rispetto alla concorrenza europea. Infatti quella in oggetto fu l’ultima Corvette dotata di questa soluzione.
Ultima di un’era, per l’appunto, per coincidenza la Corvette C1 si fece da parte quasi contemporaneamente a una diva assoluta con cui, a voler essere romantici, condivide più di un particolare. Seducente, voluttuosa, veloce, imperfetta, star di successo dalle umili origini e per questo icona del sogno americano, se ne andò nel 1962 per restare immortale e indimenticabile. Come Marlyn Monroe.
La guidiamo con...
Esiste una sola canzone per un’auto così, ed è stata resa famosa da un cartone animato. Non sto parlando di Paw Patrol ovviamente, ma del cult Heavy Metal del 1981 in cui una Corvette C1, bianca e con gli interni rossi come questa (ma del ’59, per dovere di cronaca), viene sganciata da uno Shuttle e rientra in atmosfera in una delle opening più splendidamente ignoranti della storia dell’animazione. Nell’intro originale la scena avviene al ritmo di Radar Rider dei Riggs, che ci sta altrettanto bene, ma nella stessa colonna sonora – che per inciso sfoggia gente del calibro di Black Sabbath e Sammy Hagar – è presente Don Felder con Heavy Metal (Takin’ a Ride), che incarna alla perfezione lo spirito di quest’auto, oltre ad essere una specie di manifesto di tutto un mondo.
Drive it on up and let’s cruise a while
Leave your troubles far behind
You can hedge your bet on a clean Corvette
To get you there right on time
Now if you’re ready to dive into overdrive
Baby, the green lights are on
It’s like you’re running your brain on some high octane
Every time she reaches fully blown
Per l’auto di questo articolo ringraziamo sentitamente Giorgio.