Trombe di Falloppio: preghiere, esorcismi e autodaf(iat)é

Trombe di Falloppio: preghiere, esorcismi e autodaf(iat)é

Non ho mai particolarmente amato la definizione «rock demenziale», sia per i numerosi quanto impropri accostamenti con artisti che di demenziale avevano poco o nulla, sia per l’accezione inevitabilmente negativa legata a una visione ancora oggi snobistica nei confronti di certe proposte musicali. A dimostrazione di queste storture potrei citare gli Squallor (divinità assolute e irraggiungibili) e gli Skiantos (unico autentico gruppo punk italiano), mentre nell’immaginario collettivo il punto di riferimento è senza dubbio individuabile in Elio e le Storie Tese.

In molti però non sanno che, praticamente in contemporanea ai milanesi Elii, all’inizio degli anni ’90 nel vicino Piemonte si affacciava sul mercato discografico un gruppo assai più vicino al concetto di «demenziale» e che in breve tempo avrebbe codificato anche in ambito heavy metal questi canoni estetici attraverso canzoni quali Vomithunder, Casellante di Savona e la leggendaria Duna Bianca. Il nome di quella band era Trombe di Falloppio, che avrebbe chiuso il suo percorso dopo tre demo e altrettanti album, lasciando nello smarrimento schiere di fedeli che finalmente, dopo l’annunciata reunion, possono ora tornare a celebrare gli antichi riti, come mi ha spiegato Marco Strega, chitarrista e fondatore del progetto.

L’ultimo album firmato Trombe di Falloppio risale al 2006: come è stato ritrovarsi a scrivere nuove canzoni dopo quasi 14 anni?

Durante gli ultimi anni di attività il nucleo originale era andato progressivamente sfaldandosi, tanto che anche io me ne ero andato nel 2007, un paio d’anni prima del definitivo scioglimento. I rapporti personali, però, non sono mai venuti meno, soprattutto fra me e Flavio, che ci conosciamo da tutta la vita (si parte dai tempi dell’asilo…) e che non abbiamo mai smesso di frequentarci a prescindere dai rispettivi impegni personali o professionali. E proprio da uno dei nostri incontri, in occasione di una grigliata, ci siamo chiesti se non sarebbe stato il caso di riportare in vita il progetto: era il 2015, quindi è chiaro che ce la siamo presa piuttosto comoda; ma alla fine siamo qui con un nuovo disco, qualche concerto alle spalle per rimetterci in forma e tanta voglia di suonare.

Avete recuperato tutti i membri originali o c’è stato qualche avvicendamento?

Oltre a me (Strega, chitarra) e Flavio (Falloppio, voce), l’unico elemento della prima formazione è l’altro Flavio (Flober, batteria), mentre Mario (Allo, basso) è stato il nostro secondo bassista; l’unico componente nuovo di zecca è Salvatore (Za, chitarra).

Come nasce la figura di Padre Abarth?

Alla base di tutto c’è un’ideale «dedica» al defunto Padre Gabriele Amorth, il sacerdote che nei suoi ultimi anni si era distinto per gli anatemi scagliati anche contro personaggi dello spettacolo; e, visto che sulla copertina del nostro primo album invitavamo a non avere paura della «Musica del Diavolo», abbiamo deciso di omaggiare a modo nostro il noto esorcista trasformando Padre Amorth in Padre Abarth, scelta che ha poi influito anche sulla dimensione live, visto che saliamo sul palco vestiti da preti. Inoltre, dopo tanti anni era arrivato il momento di cambiare macchina, così siamo passati dalla Duna alla 500!

Le Trombe di Falloppio hanno rappresentato uno dei punti di riferimento in un periodo in cui era ancora consentito suonare bene senza prendersi troppo sul serio, atteggiamento assai diffuso fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 (come testimoniato dal glorioso Festival di Sanscemo) ma che in breve tempo ha iniziato a essere malvisto da più o meno presunti fenomeni nella cui visione musicale non esisteva spazio per l’ironia, l’umorismo o il semplice cazzeggiare per farsi due risate. Il punto è che, all’atto pratico, di tempo ne è passato parecchio, quindi dopo avere ascoltato Padre Abarth, sono costretto a chiederti: a distanza di tre decenni, dove avete trovato gli spunti per tornare a essere «cazzari» come quando avevate vent’anni?

In realtà, è stato facilissimo. Come dicevo, io e Flavio non ci siamo mai allontanati, e rientrare nel ruolo di autori non ha richiesto nessuno sforzo: ci siamo sempre occupati delle musiche e dei testi, quindi si è trattato solo di rimettere in moto un meccanismo di lavoro più che collaudato. Le uniche difficoltà sono state legate alla logistica, ovvero al fatto che abitiamo tutti e cinque in luoghi piuttosto distanti, aspetto che ha inevitabilmente condizionato le session di registrazione. Sul fatto di essere «cazzari», invece, non c’è molto da dire: per suonare in questo gruppo è una caratteristica obbligatoria!

L’album è stato presentato con due video, ovvero Fedetz e Subbuteo: è stato difficile estrarre questi singoli da una tracklist così bene assortita?

La scelta di Fedetz come primo singolo è stata forse determinata dal desiderio di ripresentarci con un brano in grado di rispecchiare la formazione attuale: fra di noi abbiamo ascolti parecchio differenti, per cui un brano orientato verso il più classico hard rock rappresenta il perfetto equilibrio. Per quanto riguarda Subbuteo, invece, più che la scelta del brano, a essere complicata è stata la realizzazione del video, le cui riprese sono state interrotte a causa della pandemia e che è stato completato assemblando filmati che ognuno di noi ha realizzato con il proprio smartphone. Infine, ci sarebbe in programma anche il video del brano di apertura del disco, Beppe La Bambola, ma lo realizzeremo quando ci sarà la possibilità di ritrovarci tutti insieme

A dispetto dei problemi logistici, una caratteristica evidente del disco è che suona benissimo: pulito, nitido e potente come purtroppo non così spesso accade di recente. In che modo avete gestito il lavoro in studio?

Nonostante le distanze e gli impegni, siamo riusciti a organizzare al meglio le tempistiche, a cominciare da Flavio, che ha realizzato tutte le parti di batteria in un solo giorno. Le fasi di registrazione sono state abbastanza veloci, senza grossi intoppi e – tornando alla batteria – senza trigger o manipolazioni del caso, contrariamente a quanto diventato sin troppo di moda.

E, fra un approccio démodé e un’epidemia planetaria, finalmente il disco è uscito…

La data di pubblicazione era stata fissata per il primo aprile, ma visto il dramma che tutta l’Italia stava affrontando abbiamo scelto di rinviarla a quando la situazione sarebbe stata meno grave. Fortunatamente le cose hanno iniziato a migliorare, anche se molto lentamente, così il disco è uscito il 25 maggio.

Immagino che di andare in tour non se ne parli.

Lo scorso anno siamo tornati sul palco trovandoci decisamente bene, quindi potrai capire la voglia di suonare dal vivo le nuove canzoni! Al momento, però, l’attività live è bloccata, e viste le recenti direttive dubito che potrà riprendere in tempi brevi. L’aspetto positivo è che nei concerti del 2019 abbiamo trovato un pubblico composto non soltanto da vecchi fans, ma anche da giovani che per semplici motivi anagrafici non potevano seguirci negli anni ’90, e questo ci ha fatto molto piacere.

In effetti, rimanendo in ambito di anagrafe, quest’anno la band compie trent’anni: avete deciso cosa volete fare da grandi?

In un certo senso il tempo per noi non è passato. Abbiamo sempre suonato per divertirci, e quando ci siamo trovati con un po’ di materiale valido non è stato un gran problema ricominciare a farlo. Certo, restare lontani dalle scene per molto tempo ha sicuramente inciso, soprattutto per quanto riguarda il seguito di pubblico; ma, come dicevo, abbiamo visto molti giovani durante i concerti dello scorso anno, a dimostrazione che il nostro modo di essere dissacranti è ancora apprezzato. E, finché la formula funziona, non vedo perché dovremmo cambiarla.

Il mio legame con le Trombe di Falloppio risale ai primi anni ’90. Anni irripetibili, quando la musica (anzi, certa musica) rappresentava molto di più che un prodotto commerciale, quando erano ancora i demo registrati su cassetta a gettare le basi della notorietà, quando un’idea apparentemente folle poteva concretizzarsi in un evento come il Festival di Sanscemo, quando – dopo Firenze e Milano – la capitale del metal tricolore si era spostata a Torino, tutto questo poco prima che il flagello chiamato «Grunge» facesse tabula rasa di una scena che aveva finalmente guadagnato la considerazione e il rilievo che meritava. Non è stata però solo la nostalgia a farmi apprezzare questo ritorno delle Trombe. Se infatti in un certo senso è stato come ritrovare amici che non si incontravano da un sacco di tempo, dal punto di vista che potremmo definire «tecnico», oltre alla qualità del disco, a colpirmi è stata la facilità da loro mostrata nel rimettersi in gioco come se 14 anni fossero stati in realtà 14 giorni, una breve vacanza per poi riunirsi, salire a bordo di una grintosa 500 e partire verso i palchi di tutta Italia per diffondere il Verbo fra vecchi e nuovi adepti pronti a convertirsi accogliendo la nuova lieta novella senza alcun timore. Perché, come dice il Padre, …a venta nen avej pao dla musica dël diav!