Il disco
- Etichetta:Autoprodotto
- Città:Milano
- Genere:Progressive/Experimental Metal
- Line Up:
- Samuele Boni (chitarre, Voce)
- Valentino Boni (basso)
- Alessandro Nardin (tastiere, piano, synth, voce)
- Emanuele Cossu (batteria, percussioni)
Devo ammettere di non sapere esattamente da dove iniziare per recensire Kind of Black. I ragazzi del nord Italia ci hanno portato un disco (si, cinque tracce, ma fatemi finire e vedrete perché lo chiamo disco) di prog metal di quel tipo che non punta tanto a creare un suono unico mischiando elementi diversi, ma a sfruttare una decina di generi diversi quasi senza soluzione di continuità. Il che lo rende abbastanza difficile da analizzare.
Mi spiego meglio. Partendo con l’opener The Oval Portrait, solo nel primo minuto passiamo da un’intro power metal a passaggi a metà tra jazz e prog anni ’80, con batteria elaborata e accarezzata e pianoforte, e il metallo viene accantonato – per poi tornare pesantemente in scena con una transizione che sfiora atmosfere più death per poi virare verso lidi Dream Theateriani, e sfociare nel “ritornello” jazz. Anche in Climax si aprono le danze con chitarre pulite e tocchi sui piatti, per poi passare a una (ottima) sezione power metal che si conclude in un black molto brutale e grezzo… per infine inchiodarsi di colpo in territori quasi smooth jazz, poi death, poi… flamenco?
Capite cosa intendo dire? Siamo davanti a un gruppo di musicisti a cui sembra che la distinzione di generi non valga un fico. Il risultato finale è decisamente interessante, e anche considerando solo i cambi inaspettati e il coraggio, quasi la strafottenza nell’osare cambiare genere senza nessuna regola apparente, ci sarebbe parecchio di cui essere contenti. Ma a questo bisogna aggiungere che ogni elemento del gruppo è tecnicamente preparatissimo, con una sezione ritmica soprattutto da spavento, in grado di far fluire in maniera efficace le canzoni da una sezione all’altra.
Unica grande eccezione, la voce, decisamente non al livello degli altri strumenti nelle sezioni in pulito – probabilmente uno dei motivi per cui le canzoni sono molto più basate sullo strumentale, sebbene giochi un ruolo piuttosto importante. Siamo a metà dell’album ormai – si, si tratta solo di cinque tracce, ma vedremo in conclusione perché anche chiamarlo un EP non è esatto. 1000 Compasses è il brano che da il titolo al precedente EP del gruppo, e qui bisogna doverosamente menzionare una cosa: tre delle cinque tracce (The Oval Portrait, Climax e 1000 Compasses, la prima metà del disco) erano già uscite nei precedenti EP del gruppo (Opus Zero, 1000 Compasses).
Da un lato si sente la mancanza per la possibilità di sentire nuovo materiale, ma dall’altro questo fa in modo che Kind of Black sia il punto perfetto per approcciarsi al suono eclettico della band, fungendo da selezione del meglio del loro genere. Detto ciò, a mio parere 1000 Compasses è il brano più debole dell’album – per quanto resti un altro esperimento interessante nel collegare stili diversi, è un mid-tempo con un po’ poca energia, e il resto delle tracce sono molto più appassionanti.
Qui si passa al nuovo materiale. The Red In Which We Are è molto jazzata, con chitarre acustiche e mandolini, per una interessante (per quanto breve) variazione sul tema, e successivamente con una chitarra elettrica pulita dal tocco estremamente soft. Ma il bello viene alla fine: Totemic Beast, una bestia di un brano da 18 (diciotto!) minuti che da solo va a riempire quello che sarebbe il resto di un intero album. Qui pianoforte e metal death/prog ci trascinano, con la voce che si avvicina molto al buon vecchio Shagrath e che dà il meglio di sé rispetto al resto dei brani. È un brano intenso, che procede tra sezioni estremamente diverse tra loro (come al solito) e che richiama i Cynic in più di una occasione, con armonie vocali e una conclusione che sfocia nell’acustico.
Onestamente impressionante, anche solo per il gesto atletico di suonare questo tipo di cose live (cosa che confermo personalmente siano in grado di fare). L’altra faccia della medaglia, però, è che questo pastiche stilistico va a svantaggio della coesione del suono del gruppo: è difficile farsi un’idea di cosa “siano” i Landscape of Zeroes se ogni minuto di una canzone è diverso dal minuto che lo precede, e rischia di sfociare nell’essere tutto per non essere niente (e nel saper fare un sacco di generi senza poterne padroneggiare nessuno). Però è anche vero che ci sono elementi di fondo come l’uso del piano e le chitarre metal che fungono da collante, e l’effetto straniante si sente solo in maniera occasionale.
Come tirare le somme? Di sicuro i Landscape of Zeroes sono un gruppo estremamente interessante, e se riuscissero a limare gli elementi più problematici (la voce, ragazzi) potrebbero rivelarsi una grossa sorpresa nella scena più prog e sperimentale nostrana. D’altra parte è anche vero che ho pensato lo stesso all’uscita del loro precedente EP, il che fa un po’ temere per la capacità del gruppo di mantenere la spinta, ma d’altronde lo sappiamo: fare musica di questo tipo in Italia è molto difficile, e già arrivare a questo punto è un risultato lodevole – e Totemic Beast è qualcosa che molti pochi gruppi sono in grado di tirar fuori. Da provare almeno una volta.
Tracklist
- The Oval Portrait - 4'28"
- Climax - 6'57"
- 1000 Compasses - 4'04"
- The Red in Which We Are - 2'32"
- Totemic Beast - 18'15"
- Valutazione: 7 / 10