Avevo detto che ne avrei parlato, anche se non contavo di farlo così presto, dato che abbiamo appena finito di parlare di Corvette con Fabio Alessandrini. Ma se avrete la pazienza per leggere la storia di questo demone in nero, sono certo che mi scuserete.
Teoricamente, dal 1967 al 1969 chiunque avrebbe potuto recarsi in un concessionario Chevrolet e uscirne con una Corvette L88. Il fatto è che l’opzione non era pubblicata sulle brochure, costava da sola quasi quanto una seconda Corvette e non permetteva di avere accessori come autoradio, o aria condizionata, nemmeno il riscaldamento. Inoltre sarebbe stata consegnata un’auto che si poteva usare solo con benzina ad alti ottani, quando le altre potevano andare a 89 (il minimo negli USA). Ciò non bastasse, i concessionari stessi erano invitati a dissuadere potenziali clienti, dirottandoli magari sulla già potentissima L71 da 435 cavalli, mentre l’L88 era dichiarata a 430. Cinque in meno.
Quindi perché ne sono state costruite 216? Quali pazzi decisero di buttare i loro soldi in una L88 con queste premesse? Ebbene, un veloce passo indietro.
C’era una volta Zora Arkus-Duntov, capo della divisione performance della General Motors e al tempo responsabile del progetto Corvette il quale, in pieno spirito americano, mise in piedi un piano segreto per infilare nei listini una vettura da corsa non ufficiale sotto il naso della dirigenza GM. Fu così che un motore da competizione fece capolino tra gli optional, “nascosto” al grande pubblico e noto solo agli addetti ai lavori o a chi se ne intendeva davvero.
L88 era infatti la sigla di un V8 427ci (7200cc) con alto rapporto di compressione (12,5:1), punterie meccaniche e carburatore Holley 850 CFM. Il tutto installato di fabbrica e derivato da quello montato sulla Corvette Sunoco di Roger Penske, vincitore della Daytona del ’66. E i famosi 430 cavalli erano dichiarati 1000 giri sotto il picco di potenza vero e proprio, che successivi test hanno bancato a più di 560 cavalli. Cinquecentosessanta. Negli anni ’60 e su un’auto da strada. Per confronto e senza nulla togliere, la Lamborghini Miura P400S ne sfoggiava 370 e una Ferrari Daytona 352.
La potenza del motore era a dir poco mostruosa e rese queste Corvette capaci di arrivare a più di 290Km/h, staccare 400 metri con partenza da fermo in 11 secondi e passare da 0-100Km/h in meno di cinque appena uscite dal concessionario. Non paga di questo, l’L88 era equipaggiata con una meccanica pronto-corsa che consisteva in cambio manuale M22 HD “Rock Crusher”, sospensioni e freni a disco Heavy Duty con servofreno J50 e altri dettagli minori.
I risultati, ovviamente, non tardarono ad arrivare e le L88 acquistate da scuderie e gentleman drivers mieterono successi in diverse categorie, delle quali le più prestigiose sono la vittoria alla 24 ore di Daytona del 1968 (con punta di 310Km/h) e la vittoria di classe a Le Mans nel 1972 con la scuderia NART di Luigi Chinetti.
In Europa e nel mondo si è vissuta una mezza verità: quella secondo cui il titolo di “auto più veloce del mondo” fosse una faccenda privata tra Ferrari e Lamborghini. Dati alla mano non era vero: c’era un mostro americano che se ne stava nascosto, lasciando che il resto del mondo pensasse quel che voleva.
La guidiamo con...
Non l’abbiamo un’autoradio qui. Non che la cosa rivesta una grande importanza, se si ha la fortuna di sedersi dietro al volante di una belva del genere. Non saprei nemmeno da dove partire per indicare una strada, perché in fin dei conti è un’auto da corsa con la targa, e infatti è tra pista e incidenti che sono state distrutte buona parte delle 216 prodotte. Perciò, attendendo la tardiva beatificazione di Zora Arkus-Duntov, non ci resta che trovare una canzone adeguata al motore della L88 e l’unica che mi viene in mente, per aggressività e potenza, è Painkiller dei Judas Priest.
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