Il mio rapporto con i Sojourner è un perfetto esempio dell’antico adagio che saggiamente alludeva a quanto il mondo possa essere piccolo.
Un paio di anni fa mi vennero segnalate una trentina di nuove uscite discografiche fra le quali avrei potuto scegliere per la pubblicazione di recensioni. Felice del fatto di conoscere pochissimi dei nomi in elenco, decisi di scegliere a istinto, senza neppure andare a verificare eventuali cartelle stampa che potessero darmi indicazioni anche solo sul genere musicale che avrei dovuto affrontare. La sorte volle che selezionassi due album, entrambi pubblicati dalla label italiana Avantgarde Music: Re Un dei portoghesi Névoa (ovvero uno dei più interessanti progetti degli ultimi 25 anni) e Empires Of Ash, firmato da un misterioso ensemble chiamato Sojourner, che presentava membri provenienti dai quattro angoli del mondo e che giudicai più che promettente. A distanza di un anno, il buon Riccardo Floridia (già batterista degli Atlas Pain) mi chiese se conoscessi un gruppo chiamato Sojourner e, alla mia risposta positiva, mi anticipò il suo imminente ingresso in quella band.
E, come si suol dire, il resto è storia: oltre alla possibilità di seguire molto più da vicino i progressi del gruppo, ho successivamente avuto il piacere di conoscere Mike Lamb e Chloe Bray durante una splendida serata in pizzeria per poi – grazie a Babbo Internet – realizzare l’intervista che state per leggere con Mike, Chloe, Riccardo e il cantante Emilio Crespo (ma senza il bassista Mike Wilson), pronti a calare in Italia per la prima volta.
Lo scorso marzo avete pubblicato il vostro secondo album, intitolato The Shadowed Road, due anni dopo l’ottimo esordio di Empires Of Ash: quali sono, secondo voi, le principali differenze fra i due dischi?
ML – In termini musicali la principale differenza sta nel modo in cui io e Chloe abbiamo affrontato la scrittura e la registrazione dell’album. Volevamo qualcosa che suonasse più maestoso e potente, migliorando anche gli aspetti legati alla produzione. Nel suo complesso, considero questo disco più vario e più interessante. Inoltre, grazie all’arrivo di Riccardo, abbiamo potuto registrare con una vera batteria, e questo ha ulteriormente migliorato il nostro sound.
CB – Abbiamo consolidato le atmosfere trionfali, ma al tempo stesso volevamo che i due dischi fossero diversi fra loro. Ci siamo concentrati di più sulle chitarre, con una maggiore definizione dei riff e un approccio più vicino all’atmospheric black metal. Siamo riusciti a perfezionare molto il nostro suono e di certo continueremo a farlo.
EC – Dal punto di vista vocale, ho potuto garantire una maggiore varietà rispetto all’album precedente. Su Empires Of Ash ho cantato in rasp per tutto il disco, con backing growls che si sentivano a malapena; in The Shadowed Road, invece, ho potuto sfruttare meglio la mia estensione, mostrando ulteriori lati della nostra musica. Come diceva Mike, questo disco è più vario, quindi lo stesso ha dovuto valere per la voce: il risultato è stato eccellente, e la prossima volta sarà ancora migliore.
L’album è stato mixato da Øystein G. Brun e masterizzato da Dan Swano: qual è stato l’impatto sul disco di questi due autentici mastermind?
Semplicemente la migliore produzione possibile! Si tratta di personaggi immensi, che hanno dato un enorme contributo a tutto il metal, ed è stato un onore averli al nostro fianco durante la realizzazione di The Shadowed Road, come senza dubbio sarà anche per i prossimi album.
La vostra musica si muove all’interno di un ampio territorio artistico, riuscendo a spingersi fino ai confini del black metal, del folk, dell’ethereal voices e del symphonic rock, tutti elementi legati da atmosfere epiche che danno alla musica dei Sojourner una peculiare identità: come siete arrivati a soluzioni così particolari e ispirate nel songwriting?
CB – Penso si tratti della naturale combinazione di quanto io e Mike scriviamo. Abbiamo iniziato a comporre Empires Of Ash pensando di indirizzarlo verso l’atmospheric black metal, ma ben presto l’influenza di molti dei generi che apprezziamo è emersa, portando il disco in differenti direzioni. Il metodo, però, funziona: talvolta uno di noi scrive un riff o una parte di cui non è sicuro cosa fare e successivamente l’altro interviene facendola diventare la base per un nuovo pezzo. Ritengo che la cosa più importante sia il non aver mai voluto mirare a sonorità proprie di un qualsivoglia genere, né limitarci ai canoni che il pubblico vi associa. Abbiamo sempre chiari i contenuti e le emozioni di ogni canzone, quindi cerchiamo di ricreare quelle particolari atmosfere.
Un piccolo inciso: a fianco dei Sojourner esiste un altro progetto chiamato Lysithea, che considero un ottimo esempio di post black dalle grandi prospetttive: quanto manca al successore di Realms, che ormai ha già tre anni?
ML – Grazie per averci dato un ascolto! Ho creato i Lysithea nel 2008, per poi coinvolgere Mike Wilson più o meno nel 2012. Ho imparato molto da questa esperienza: ci sono aspetti della fase di registrazione e del suono finale che oggi affronterei in modo diverso, ma sono orgoglioso di ciò che abbiamo fatto. Riguardo il nuovo disco, all’atto pratico è Mike che lo ha scritto e registrato, essendo io parecchio impegnato con i Sojourner, ma proprio in questo periodo mi sto occupando del mixing e del mastering. E sarà splendido quando la gente lo ascolterà, per ché Mike ha fatto un lavoro fantastico! Sai, sotto molti aspetti Lysithea è il progetto che ha rappresentato la scintilla per la nascita dei Sojourner, perché è grazie a esso che ho conosciuto Emilio…
EC – Sono sempre stato un grande fan del doom, e un giorno un amico mi disse di provare ad ascoltare una band chiamata Lysithea. Una volta fatto, ero innamorato! Il gruppo aveva in sé tutti gli elementi che cercavo nel doom, quindi in breve tempo contattai Mike riempiendolo di elogi e complimenti… e da quel momento siamo diventati ottimi amici! Il tempo intanto passava. Avevo già pubblicato un album con la mia precedente band ormai disciolta, i Nangilima, quando io e Mike decidemmo di realizzare qualcosa insieme: inizialmente si trattava di una specie di melancholic doom, ipotesi che abbandonammo nell’accorgerci di non essere in grande sintonia con quel tipo di musica; finché arrivò l’idea di provare con un atmospheric metal influenzato dal folk ma che avesse sfumature black. In quel momento nacquero i Sojourner, ed eccoci qua!
I Sojourner sono un perfetto esempio di ciò che significa la definizione «band internazionale»: i due Mike vengono dalla Nuova Zelanda, Chloe dalla Gran Bretagna, Emilio è spagnolo ma vive in Svezia e Riccardo è italiano. Come si gestisce una simile situazione, specialmente durante la fase di sviluppo delle canzoni o le (ritengo impossibili) prove?
ML – Per quanto riguarda scrittura e registrazione le cose sono molto semplici. Io e Chloe viviamo insieme, e insieme registriamo le tracce per poi inviarle a Emilio per le parti vocali, a Mike per il basso e a Riccardo per la batteria, sui cui schemi impostati con la drum machine può ovviamente intervenire. Insomma, fare un disco è facile: i problemi iniziano quando si entra nella dimensione live…
CB – Io sono nata in Inghilterra, ma per metà sono neozelandese, e lì ho vissuto per dieci anni prima che, nel 2015, mi spostassi con Mike in Scozia, dove abbiamo completato Empires Of Ash (che avevamo iniziato a scrivere in Nuova Zelanda) e composto tutto The Shadowed Road. È una situazione che ci favorisce molto, almeno dal punto di vista della scrittura: e meno male, perché altrimenti ci sarebbero parecchi problemi! Comunque siamo tutti costantemente in contatto via Skype e messaggi, quindi riusciamo a sentirci un po’ meno lontani, senza contare che le esperienze live di questi mesi hanno permesso di vederci parecchio, incontrandoci ogni volta che è stato possibile sia per provare prima dei concerti che – ovviamente – per divertirci insieme!
EC – Come diceva Mike, siamo ben organizzati, cosa che rende il processo fluido dall’inizio alla fine. Anzi, penso che se ci trovassimo nella stessa stanza per tutto il tempo necessario forse le cose non funzionerebbero così bene! In fondo, si tratta di trovare la giusta alchimia, e noi l’abbiamo raggiunta nonostante le distanze che ci separano.
RF – È tutto abbastanza agevole, proprio come se lavorassimo a contatto diretto: c’è affiatamento, ci diamo una mano, ogni nuova idea è sempre benvenuta… Quando si tratta di provare, invece, le cose si complicano, più che altro perché abbiamo occasione di trovarci solo poche ore prima del concerto e, anche se ci si esercita ognuno a casa propria, una volta entrati in sala prove ci restiamo praticamente finché non ce la facciamo più.
Se il lavoro in studio è complicato, risulta evidente come la situazione si complichi parecchio in chiave live, una fase che avete inaugurato solo qualche mese fa con il vostro primo concerto durante il festival North of the Wall, a Glasgow: quali sono le prospettive riguardo l’attività dal vivo?
EC – Sarei un bugiardo se dicessi che non ce la stavamo facendo sotto la prima volta che abbiamo suonato dal vivo! Abbiamo provato per più di 24 ore nei giorni precedenti il concerto, ma sono felice di suonare con musicisti talentuosi e preparati, visto che una volta sul palco tutto è andato bene. Certo, qualche imperfezione c’è stata, ma ce l’abbiamo fatta! E non c’è bisogno di dire quanto sia stato subito grande il desiderio di ripetere quell’esperienza, tanto che dopo il North Of The Wall sono arrivati il Dark Troll di Bornstedt, in Germania, e il Warhorns di Eggborough, in Inghilterra, mentre ora è il momento del Black Winter Fest in Italia. Ma ci saranno altre date, quindi tenete gli occhi aperti!
RF – Come diceva Emilio, c’era una grande tensione prima del debutto al North Of The Wall: eravamo gli headliner, ma non avevamo mai fatto una prova insieme! È stata un’impresa al limite dell’impossibile, ma a parte qualche errore e qualche inconveniente tecnico ce la siamo cavata alla grande, e se all’inizio pensavamo che si sarebbe trattato di una situazione da «un concerto e via», subito dopo sono arrivate altre proposte, di cui siamo stati davvero onorati. Inoltre, mi piace ricordare che fra il pubblico di Glasgow c’era un nutrito gruppo di amici provenienti dalla mia Valle Camonica, partiti dall’Italia appositamente per assistere al nostro primo concerto e fra i quali voglio ringraziare in particolare la squadra di Media Factory: Fabrizio Romani, che si è occupato dei suoni, e Federico Poni, che mi ha assistito sul palco.
ML – Questi primi concerti hanno indubbiamente contribuito alla nostra crescita come band. Ma sarà il prossimo anno a rivelarsi fondamentale, visto che affronteremo il nostro primo tour europeo, con 16 date in 11 nazioni fra la metà di gennaio e gli inizi di febbraio insieme a due grandi band come Draconian e Harakiri For The Sky.
Come accennato, il prossimo 1 dicembre sarete per la prima volta sul palco in Italia, nell’undicesima edizione del Black Winter Fest che si terrà presso il Campus Industry Music di Parma, insieme a headliner del calibro di Marduk e Tsjuder: cosa vi aspettate da una serata così importante, e per molteplici ragioni?
ML – Non so esattamente cosa aspettarmi, più che altro perché siamo molto più melodici rispetto alle altre band in cartellone: ma sono onorato di suonare finalmente in Italia! Sono davvero carico, perché amo molto questo Paese.
EC – Parecchi altri gruppi sono decisamente black metal, e noi siamo ciò che siamo. Eppure non penso sarà un problema: piuttosto, questa sarà un’opportunità per rendere la serata più varia, cosa che apprezzeranno in molti. Mi piace il black metal, ma cambiare un po’ la proposta delle band in scaletta non è certo un male.
RF – Non vedo l’ora di suonare nel mio Paese, anche se non so proprio cosa aspettarmi dal concerto. Ma sono sicuro che il pubblico si divertirà.
Ultima, obbligatoria domanda: potete già anticipare qualcosa sul prossimo album a firma Sojourner?
ML – Io e Chloe ci stiamo già lavorando e, senza spoilerare troppo, posso dire che sarà un disco più mirato, potente e musicalmente interessante rispetto agli altri due. Abbiamo percorso entrambi un lungo cammino come autori da quando è nato il progetto, e sappiamo esattamente cosa vogliamo ottenere con il nostro suono. Aspettatevi qualcosa di più oscuro, ma comunque molto Sojourner.
CB – Sono davvero entusiasta del prossimo album! Sarà leggermente più oscuro rispetto a The Shadowed Road, con un suono più malinconico, ma senza per questo perdere in potenza ed epicità. E su queste basi vogliamo scrivere una storia che possa renderle ancora più solide, con le canzoni che si intrecciano l’una con l’altra mentre ne narrano ognuna una parte. Davvero, non vedo l’ora di poter svelare i primi particolari con il nuovo anno!
Al termine della nona puntata della seconda stagione della serie televisiva SCRUBS (se non lo avete ancora fatto, guardatela: vi cambierà la vita), il dottor Cox mette in risalto l’importanza della fortuna in ogni azione che si compie. In quel caso il tema era decisamente più serio rispetto alla scoperta di una band, ma mi sono trovato a riflettere su come l’aver scelto casualmente di recensire un disco abbia originato una serie di fatti che, se visti nel loro insieme, risultano quantomeno sorprendenti. Ma non è solo per l’aspetto musicale che mi ritengo fortunato nell’avere incontrato i Sojourner. Come sempre ribadisco, è l’aspetto umano a fare la differenza quando si incontra un personaggio da intervistare; e se da questo fugace momento si origina un legame che va al di là dal rapporto professionale, allora sì che il giornalista può dire di essere stato fortunato. E chissà che cotanta buona sorte non si rifletta su questi cinque artisti, che percorrendo le oscure strade del difficile mondo dello showbiz accendono la loro musica per illuminare un cammino che li porterà lontano.
Fino a dove, non so: a deciderlo sarà la fortuna.