Phoenix Again: Alla ricerca del suono

Phoenix Again: Alla ricerca del suono

Se esiste un genere in grado di raccogliere sé infinite tipologie di voci, suoni e inclinazioni, questo è il progressive rock. Dapprima la Gran Bretagna e poi Germania, Francia e Italia sono state le nazioni che hanno visto nascere e svilupparsi questa forma di espressione musicale che come nessun’altra può vantare sfumature tanto diverse: dalla scena di Canterbury al krautrock, dalle trame più complesse dell’elettronica a quelle più estreme del metal, quello del prog è un universo sonoro nato guardando verso il futuro (come già si evince dal nome) ma con radici ben salde nel passato, inteso come folk,  rock ‘n’ roll, e – soprattutto – musica classica.

Evitando di perderci fra le diatribe sull’individuazione del suo preciso momento di nascita, il periodo d’oro del progressive si può individuare fra la prima metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ovvero fino a quando proporre testi articolati, partiture intricate, lunghissime suite e strutturati concept album era ancora apprezzato sia dal grande pubblico che dagli addetti ai lavori. Ma se, venendo ai giorni nostri, all’estero le cose non vanno troppo male, il ricchissimo panorama prog italiano è valutato quasi esclusivamente fuori dai patrî confini (e sai che novità…), dove viene riconosciuto il grande contributo dei nostri artisti alla crescita di un movimento oggi inspiegabilmente trascurato ma ancora in grado di offrire splendidi esempi di come – contrariamente a ciò che sembra essere diventato la norma negli ultimi venticinque anni – per definirsi «musicisti» occorra quantomeno saper suonare. E uno di questi esempi è costituito dai Phoenix Again, formazione bresciana che rappresenta la reincarnazione dei Phoenix – fondati nel 1981 da Silvano Silva e dai fratelli Claudio, Antonio e Sergio Lorandi – dopo la scomparsa di Claudio nel 2007, una band che ho avuto il piacere di contattare dopo la sua partecipazione all’edizione 2017 di Nistoc, festival che da ormai 16 anni viene organizzato a Nistisino, splendida località nel comune di Sulzano, sul lago d’Iseo, in provincia di Brescia.

Il vostro nuovo album, Unexplored, è uscito ormai circa quattro mesi fa: come si inserisce nel percorso iniziato nel 2010 con ThreeFour e proseguito nel 2014 con Look Out?

Riteniamo giusto vedere all’interno della nostra discografia una vera e propria evoluzione. Se ThreeFour, infatti, è un album che nasce come reazione alla prematura scomparsa di Claudio e dal desiderio di incidere su disco il materiale che la band aveva composto a partire dalla sua fondazione nel 1981, già in Look Out è stato possibile avvertire una prima inversione di rotta: certo, i brani contenuti nell’album del 2014 sono arrangiati partendo da materiale sempre risalente agli anni ’80, ma la ricerca di nuove sonorità è stata una costante durante le registrazioni in studio, e Unexplored non può che essere il passo successivo nella nostra ricerca personale. Innanzitutto si può sentire la maggiore presenza della parte più «giovane» del gruppo, che – dopo la prima esperienza di registrazione del 2014 – per questo album si è messa in prima linea e ha preso parte attiva in fase di arrangiamento e composizione: la perfetta sintesi di ciò che sono oggi i Phoenix Again si può sentire in The Bridge Of Geese, brano di nuova composizione in cui è evidente l’intervento di ogni membro del gruppo, e in That Day Will Come, brano cantato e che abbraccia sonorità non usuali per noi.

La grande famiglia del progressive riunisce un notevole numero di figli e figliastri (space, electric, Canterbury scene, folk, psychedelic, RIO, symphonic, zeuhl…): a quale ritenete sia più indicato accostare la vostra proposta?

È una domanda cui è davvero difficile rispondere, perché già i gusti personali di ognuno dei sei membri della nostra line-up sono, pur con punti in comune, sensibilmente diversi fra loro. Senza dubbio, però, nel nostro modo di «vedere» e «pensare» giocano un ruolo fondamentale non solo il progressive classico, ma anche la musica folk (Claudio era un grande appassionato dei cantautori statunitensi e canadesi e Antonio non ha mai nascosto la sua passione per gli Inti Illimani) e il jazz-rock, quest’ultimo particolarmente avvertibile in alcuni dei nostri brani, come ad esempio Autumn o nella sezione centrale di Cianuro Puro. Difficile dire dove potremmo inserirci all’interno delle etichette da te menzionate: ma forse ci riteniamo più un gruppo jazz-rock e fusion, che progressive tout court.

L’Italia è stato uno dei Paesi simbolo del progressive grazie a progetti diventati più che famosi (Banco Del Mutuo Soccorso, PFM, Le Orme..), altri più di nicchia (Area, Osanna, Biglietto Per L’Inferno, Delirium, Stormy Six…) e altri ancora decisamente – e purtroppo – poco noti (Picchio Dal Pozzo, Alphataurus, Locanda Delle Fate, Alusa Fallax, Cervello, Museo Rosenbach, Panna Fredda…), tutti gruppi ormai praticamente ignorati in patria ma ancora molto valorizzati all’estero, soprattutto in Giappone: alla luce della vostra lunga militanza nella scena, a cosa pensate sia dovuta questa pressoché totale mancanza di attenzione per un genere comunque ancora più che in salute?

Innanzitutto il progressive è una musica di non facile fruizione e spesso i gruppi facenti capo a questa scena hanno offerto al mercato musicale prodotti che sono stati quasi del tutto surclassati da altri di più immediato impatto, almeno a livello di audience. Spesso ciò si giustifica dicendo che alcune band erano in anticipo sui tempi, e in certi casi (gli Area, ad esempio) questo è assolutamente vero. Eppure ora sembrerebbe più opportuno affermare il contrario! Può apparire assurdo, ma l’impressione è che al giorno d’oggi fare prog sia diventato un: «Mettici il mellotron e la chitarra dodici corde perché li usavano i Genesis e i King Crimson!» Ci sembra che questo tipo di atteggiamento, ormai diffuso all’interno dell’ambiente, contrasti – e non poco – con l’etimologia stessa del termine «progressivo», che invita a guardare avanti, non indietro. Certo, è vero che noi siamo nani sulle spalle di giganti e che non possiamo dimenticare tutta la meravigliosa scena musicale degli anni ’70: siamo però convinti che si debba cercare di proporre prodotti originali che abbiano un’identità propria.

Durante gli anni ’70 il progressive, con tutte le sue derivazioni (anche solistiche: pensiamo a Franco Battiato, Claudio Rocchi, Alan Sorrenti…), era probabilmente il genere più diffuso nel nostro Paese, e anche nella provincia più profonda era possibile assistere a concerti di artisti importanti: qual è, oggi, lo spazio del progressive nel panorama live italiano?

Per fortuna in Italia sopravvivono dei focolai devoti al progressive, anche se sono davvero pochi. Non c’è molto da dire, se non che ammiriamo profondamente chi, nonostante la risposta del pubblico non sia sempre positiva in termini di affluenza, continua a credere in una musica diversa da quella propinata dalle radio ogni giorno (anche se nelle webradio, soprattutto all’estero, il prog gode di maggiori spazi). Persone come Massimo Cataldi de La Casa di Alex, Gianmaria Zanier di Radio Vertigo One o lo staff di Black Widow Records – giusto per fare qualche esempio – continuano a proporre un programma volto a promuovere il nostro genere sul territorio nazionale, tanto da mantenerlo vivo. Oggigiorno, si sa, non si suona dal vivo spesso come nei decenni passati, e ancor meno se si propone musica propria: anzi, sembra che offrire una serata a una band che propone composizioni originali sia un rischio che nessuno vuole affrontare!

Viviamo in un’epoca in cui il prodotto musicale standard è composto da un brano di non più di tre minuti prodotto da un computer pieno di suoni campionati e interpretato da presunti cantanti che senza Auto-Tune verrebbero denunciati per molestie, quindi – con un po’ di ironia – vi chiedo: proporre musica con brani molto lunghi, suonata benissimo da veri musicisti, spesso strumentale e con partiture complesse e articolate non rischia di essere controproducente, anche solo da un punto di vista commerciale? E a quale tipologia di pubblico pensate si possa rivolgere il progressive – italiano o meno – nel 2017?

Hai già detto tutto! Senza dubbio proporre un prodotto come il nostro Unexplored è, dal punto di vista del mercato, controproducente. Nonostante ciò, dopo un mese e mezzo dal rilascio dell’album siamo assolutamente contenti delle vendite effettuate: certo non siamo partiti con obiettivi commerciali pari a quelli di un Tiziano Ferro, né ci aspettiamo di vincere dischi d’oro o di platino, ma stiamo ricevendo ottimi feedback e grandi soddisfazioni dal nostro progetto. Ovviamente il mercato progressive è, soprattutto in Italia, una «cosa per pochi», fatta eccezione per nomi di band estere quali Opeth, Dream Theater o Haken, che hanno un grande seguito anche nel nostro Paese, senza dimenticare la tendenza tipicamente italica a considerare maggiormente i prodotti provenienti dall’estero, come se questo fosse un vero e proprio Eden musicale. Ma succede anche durante i Mondiali di calcio: agli occhi degli italiani la Nazionale sembra essere sempre sfavorita, ma ci dimentichiamo che siamo la seconda squadra ad avere vinto più volte la competizione!

Nella serata di venerdì 28 luglio siete stati protagonisti, in veste di headliner, sul prestigioso palco di Nistoc: come avete programmato il tour promozionale di Unexplored?

Per la presentazione di Unexplored abbiamo deciso di partire dalla Fiera Internazionale della Musica a Erba (dove però abbiamo proposto, tra i nuovi brani, la sola The Bridge Of Geese) e dalla Casa di Alex, a Milano. E proprio durante questo concerto, durato oltre due ore, il nuovo disco è stato proposto pressoché integralmente, ricevendo un ottimo riscontro dal pubblico. Dopo il concerto nella bella cornice di Nistoc, invece, ci prenderemo una pausa acustica e, a settembre, ci lanceremo in una nuova avventura, durante la quale proporremo riarrangiamenti acustici delle tracce presenti sui nostri tre album e accompagneremo il pittore giapponese Mitsuyasu Hatakeda durante un suo live painting, un progetto che ci affascina e stimola fortemente. Chi volesse informarsi sulle nostre attività può farlo attraverso il sito www.phoenixagain.it e la pagina Facebook PHOENIX Again, mentre per quanto riguarda il tour di Unexplored dovremo aspettare probabilmente il 2018: l’obiettivo è quello di tornare all’estero e di portare la nostra musica anche in altre città sul suolo nazionale.