Fleshgod Apocalypse: long live the king

Fleshgod Apocalypse: long live the king

Fra i gruppi che si stanno prepotentemente facendo largo nell’affollata scena metal internazionale c’è una formazione proveniente dal centro Italia che in pochi anni ha raggiunto altissimi (e meritatissimi) livelli di popolarità guadagnandosi il plauso del pubblico di tutto il mondo. Stiamo parlando dei Fleshgod Apocalypse, che pochi mesi fa hanno pubblicato il quarto album, intitolato King, e che saranno fra i protagonisti più attesi dell’edizione 2016 del Fosch Fest di Bagnatica, occasione che abbiamo sfruttato – grazie all’impegno dell’insostituibile Roberto Freri – per contattare la band, impegnata in un lungo tour europeo ma che con grande disponibilità ha comunque trovato il tempo, per voce di Tommaso Riccardi (voce, chitarra, orchestrazioni), di rispondere alle nostre domande.

Inizierei con il chiedervi quale percorso creativo avete seguito in questi quasi tre anni (mica poco!) per arrivare dall’ottimo Labyrinth al nuovo album, King, e quali sono secondo voi le principali differenze fra i due dischi.

Mettiamola così: Labyrinth è stato contemporaneamente una consacrazione del nostro stile, che ha preso forma mano a mano durante lo sviluppo dei primi lavori, ma anche il disco in cui abbiamo espresso l’aspetto più complesso della nostra musica. La storia stessa ispirava una musica pienissima, a volte addirittura contorta, e per noi la storia e la musica sono strettamente collegate. Per quanto riguarda King, personalmente lo vedo come un disco che rappresenta contemporaneamente un punto di arrivo e un nuovo punto di partenza. Abbiamo voluto creare un album che contenesse un balance perfetto fra tutti gli elementi che abbiamo sviluppato negli anni, ma che al tempo stesso esprimesse tanti altri aspetti della nostra musica che non erano mai venuti fuori prima. Credo che questo sia evidente anche dalla varietà del disco, che spazia molto pur mantenendo lo stile dei Fleshgod come filo conduttore sempre presente, un discorso che vale sia dal punto di vista compositivo che di produzione, sia nel suono che nell’artwork, nello sviluppo delle tematiche… Direi che può essere visto come il primo disco della nostra maturità.

La limited edition di King comprende un secondo CD che contiene la versione orchestrale di tutti i brani dell’album (tranne due): cosa vi ha portato a questa scelta?

È un’idea che abbiamo accarezzato per molto tempo e che è rimasta lì finché non abbiamo capito che era il momento giusto per svilupparla. Ci piaceva l’idea di permettere a chi ascolta la nostra musica di poter andare più a fondo in un aspetto, quello degli arrangiamenti orchestrali, che consideriamo portante in questa fase, e di poterne apprezzare ogni minimo dettaglio. Grazie all’esperienza di Francesco Ferrini e all’importante lavoro fatto con Marco Mastrobuono e Jens Bogren credo che il risultato sia stato davvero buono: ne siamo molto soddisfatti.

Alla qualità di un disco magnificamente prodotto si affianca ancora una volta una grande cura del lato che potremmo definire «estetico», inteso come cura dell’immagine della band ma anche in riferimento alla produzione del video di Cold As Perfection: quanto è importante questo aspetto e perché avete optato proprio per questo brano, di certo uno dei meno immediati dell’intero disco?

Noi consideriamo la nostra come un’arte poliedrica, fatta di diverse facce. Non è solo musica: è musica, teatro, cinema, e soprattutto è un messaggio. Ci piace dare all’ascoltatore la possibilità di fare un’esperienza multisensoriale sia quando assiste a un nostro show che quando ascolta un pezzo nella propria stanza, e Cold As Perfection è un pezzo concepito per essere un videoclip, una sorta di colonna sonora. Anche in fase di composizione molte scelte vengono fatte in base a questo, immaginando il film di cui la canzone sarà la musica: questa è la ragione per cui pur essendo un pezzo, come fai notare tu, relativamente complesso e multistratificato, risulta a mio avviso perfetto quando associato al videoclip. Ovviamente la scelta è legata alla storia del personaggio, che ci sembrava quella più incisiva da raccontare in questi termini.

Dei vostri quattro album, King è il terzo realizzato sotto l’etichetta Nuclear Blast: cosa significa fare parte del roster di una delle più importanti label mondiali, oltretutto come una delle rarissime band italiane scritturate in quasi 30 anni di attività?

Significa tanta fatica e tanta soddisfazione. In una grande etichetta si entra dalla porta sul retro e non dal portone principale: hai la possibilità di lavorare con un team molto grande e organizzato, che ha potenti mezzi di diffusione, ma significa anche che se non ti crei il tuo spazio e non ti fai rispettare la cosa dura poco. È divertente vedere come tanta gente ancora oggi creda che un’etichetta così «cambi» i gruppi, quando invece è tutto il contrario: le cose sono in mano tua e devi essere all’altezza, sempre. Noi da loro ci aspettiamo il massimo, esattamente allo stesso modo, e finora, con tutti i problemi e le situazioni delicate del caso, le cose sono andate molto bene e in costante miglioramento. Speriamo che si possa continuare così!

In tanti anni di interviste e recensioni, ricordo poche band in grado di scatenare nel pubblico e nella critica sentimenti così contrastanti come i Fleshgod Apocalypse. Il primo esempio che mi viene in mente sono i Queensrÿche del periodo Rage For Order / Operation Mindcrime, quando era nettissima la divisione fra chi idolatrava la band di Seattle e chi non poteva vederla neanche in cartolina, e nel vostro caso – particolarmente in Rete – è possibile trovare anche nello stesso sito sia elogi sperticati che stroncature nettissime. Qual è la vostra opinione rispetto a questo fenomeno?

Ogni cosa in cui ci sia profondità crea turbamento nell’animo delle persone e può scatenare sentimenti contrastanti, perché dipende da cosa c’è nella mente e nel cuore di chi ci si trova di fronte. È indubbio che noi mettiamo tutto quello che abbiamo dentro questo progetto e questo diventa una profonda ispirazione per alcuni e motivo di disprezzo, rabbia e addirittura gelosia in altri. Questo aspetto non ha nulla a che vedere con i gusti, che sono inopinabili, e credo sia normale e giusto che ci sia tanta gente alla quale semplicemente non piacciamo. Ma le reazioni «estreme» a una qualunque cosa sono sempre dovute a ciò che una persona vede dentro a quella cosa. Tutto quanto può essere uno specchio, anche una cosa semplice come un gruppo musicale.

Siete indiscutibilmente emergendo come uno dei gruppi più in vista nel panorama metal internazionale: come giudicate lo stato di salute della scena? E, più nello specifico, come valutate la situazione in Italia?

Dico la verità: è una domanda alla quale fatico spesso a rispondere, anche per ignoranza mia. Forse perché stando sempre in giro è difficile rendersene conto come quando uno è presente davvero sul territorio. Una cosa però è certa: è un momento difficile per tutto e tutti. La tecnologia e il periodo storico in cui viviamo hanno portato vantaggi, ma anche creato una situazione di enorme saturazione in ogni ambito, e questo ha spersonalizzato davvero tutto: musica, cibo, cinema, arte figurativa, industria farmaceutica… qualunque cosa! Sembra che l’industria e chi ci sta dietro stia cercando di ingozzarci il più possibile finché dura, nel terrore che il consumatore non consumi più, senza vedere che questo porterà inevitabilmente a un collasso di proporzioni catastrofiche, per non parlare del fatto che questo è il risultato di uno stato di assopimento e avidità patologico. La cosa triste è che, a causa di questo, la qualità non esiste quasi più in niente, le cose stanno perdendo di senso. Ecco perché, a mio parere, oggi le idee, tranne in rarissimi casi, scarseggiano, perché si rincorre un obiettivo imposto da modelli che propone la TV senza chiedersi: «Lo voglio davvero fare?» Inoltre, anche quando c’è la pasta giusta per fare qualcosa di figo, per gli stessi motivi detti sopra, oggi per un gruppo emergente è ancora più difficile farsi spazio in mezzo al marasma. È una cosa che mi abbatte, sono sincero. Noi, dal canto nostro, cerchiamo di creare la nostra arte senza compromessi, a volte riuscendoci bene e a volte fallendo, come nel naturale corso di tutte le cose.

Questo 2016 vi farà entrare nel decimo anno di attività, ed è innegabile che il cammino sia stato tanto impegnativo quanto fruttuoso, oltre che – immagino – pieno di soddisfazioni: quale bilancio potete fare di questa prima decade firmata Fleshgod Apocalypse? E cosa intravedete nella seconda?

Grazie dei «complimenti»! (ride, ndr) È stato un decennio intenso, direi estremamente, pieno di soddisfazioni e di fatiche immani. Essendo io quello che sta rispondendo all’intervista, colgo l’occasione per ringraziare tutti i Fleshgod Apocalypse e tutti quelli che hanno lavorato con noi finora: grazie veramente, è stata una figata costante! Per il prossimo decennio posso solo sperare che le cose vadano avanti così e che si creino sempre più possibilità per esprimere ancora più in grande le nostre idee.

Grazie per la disponibilità. Ci vediamo al Fosch Fest!

Grazie a te e a presto!