Novembre: di rabbia e di armonia

Novembre: di rabbia e di armonia

Roma, prima metà degli Anni Novanta: epoca di fanzine, passaparola e demotape davvero on tape, su cassetta, (cosa che sta tornando, soprattutto in ambito black), centinaia di francobolli e di molte altre cose nelle quali buona parte di chi sta leggendo quest’articolo non potrà riconoscersi.
Chi scrive ha 26 anni, il primo contatto con la musica è avvenuto con degli mp3 di qualità infima e provenienza dubbia, quasi tutti con le denominazioni sbagliate, che dio solo sa quale abbondanza di cromosomi potesse attribuire certe cose dei Doors ai Pink Floyd e risalire al vero autore era un po’ come sperare che tirando i dadi a Risiko uscissero solo dei sei in difesa.

Tutto questo per dire che ho la stessa età dei Novembre. Ne è certamente passata di acqua sotto i ponti da quando erano conosciuti come Catacomb: genere, lineup, modalità espressiva; eppure dopo un lungo iato che poco lasciava sperare rieccoli con URSA, un lavoro armonico, ben fatto, bilanciato negli elementi classici che contraddistinguono la band – aggressività e melodia – e portatore di dettagli insoliti, ma affatto deludenti. Nove anni di cambiamenti esterni e interni alla struttura del progetto Novembre, riflessi su tematiche animaliste, umane, meno intime di quanto si sia visto negli album precedenti.
Per discutere di questo ed altro, abbiamo incontrato Carmelo e Massimiliano poco prima del loro concerto al Live di Trezzo d’Adda,

Ciao, il tour sta andando piuttosto bene (si concluderà il 21/5 a Catania)!
Ho letto che il materiale l’avevate già più o meno scritto, e poi avete chiamato David Folchitto, (Stormlord, Arkana Code, Nerodia…) per la registrazione delle parti di batteria. Come si è divisa la scrittura di URSA e quale apporto è stato dato dagli ospiti del vostro disco?

Carmelo: Sì, c’era anche Fabio (Fraschini, basso), lui ha dato una base ritmica che sinceramente neppure noi che lo conosciamo bene ci aspettavamo, ha fatto molto meglio rispetto ai dischi passati. In quattro o cinque giorni s’è imparato tutto e ha scritto delle parti piuttosto complicate, e in sede di mixaggio questa cosa si è sentita. Solitamente il mixaggio appiattisce il basso, ed è sempre un terno al lotto; invece Dan (Swanö , mastermind di Unisound, studio con collaborazioni del calibro di Bloodbath, Opeth, Katatonia, Dissection et alia) è riuscito a tirare fuori benissimo ciò che aveva composte: tutti i fraseggi all’interno di URSA sono perfettamente comprensibili, quel tocco non direi funky, ma “pop”, il pop anni ’80 cui sono molto legato.
Per quanto riguarda David, lui ci ha messo un mesetto a preparare tutti i dodici pezzi, che poi abbiamo rivisto insieme in studio. Un ragazzo molto professionale.
Massimiliano: Siccome non avevamo molto tempo, la batteria l’abbiamo scritta in loco.

In un’intervista recente Mika Jussila di Finnvox – col quale avete collaborato – ha dichiarato che per mettere mano a un disco dei Nightwish ci vogliono minimo due o tre mesi. Voi quanto ci avete messo?

C: Per i Nightwish? Ma solo di mastering?
M: Ammazza!

Sì, per l’ultimo.

M: Beh, noi ci abbiamo messo quattro mesi, più altri di cambiamenti apportati da noi. In tutto circa sei mesi, abbiamo completato il disco ad ottobre.
C: Ci abbiamo messo tanto perché non eravamo in condizione di noleggiare uno studio per sei mesi, eravamo abbastanza liberi: registravamo quando volevamo, per cui non c’era problema. Abbiamo registrato tutti gli strumenti a corda agli studi di Massimiliano, Blue Noise, mentre ai Playrec di Fabio la batteria di David e la voce.
M: Quindi sì, ci abbiamo messo parecchio tempo, ma perché avevamo le idee chiare e volevamo un lavoro fatto bene; abbiamo chiesto anche a Dan Swanö di mettervi mano e fare delle piccole modifiche perché dopo tutti questi anni volevamo tornare sulla scena con un prodotto di qualità.

Quindi è stata anche una prova di abilità dopo la lunga attesa da The Blue?

M: Il fatto è che noi siamo puntigliosi, inoltre in passato, per mancanza di budget e altro, non andavamo sul sicuro. Questa volta invece avevamo già tutto pronto, economizzato dove non serviva e puntato molto più sul mixing e sul mastering.
C: E poi c’è da dire che negli album passati, soprattutto per quanto riguarda mixaggio, avevamo a disposizione un massimo di quattro, sei giorni; con Dan è diverso, perché lui lavora a minutaggio: non importa quanto ci si impiega, ci può mettere anche dieci anni per un disco da sessanta minuti, ma il prezzo resta invariato. Dal punto di vista artistico per noi è molto meglio, ti dà il tempo di operare cambiamenti al materiale, di rielaborare senza pressioni.

URSA è tratto da La Fattoria degli Animali di George Orwell, ci si aspettava si concentrasse su tematiche animaliste, ma analizzando i testi emerge un abbruttimento dell’uomo, soprattutto in Bremen, che sembra quasi un appello ad una presa di coscienza collettiva. Che cosa vi spaventa dell’umanità, adesso?

C: Guarda, io solitamente dopo aver scritto i testi, a disco uscito, me ne distacco, dovrei analizzare pezzo per pezzo e così su due piedi non me li ricordo: li scrivo al momento. Di certo non sono un ottimista (ride); però penso che l’umanità si stia accartocciando su se stessa: basta vedere i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, o all’Italia che dopo vent’anni di berlusconismo fatica ancora ad uscirne. Siamo molto lontani da Paesi con un’autonsapevolezza alta come quelli Scandinavi, per esempio, c’è un senso civico maggiore e meno egoismo. Il nostro Paese è in una fascia in cui il menefreghismo è imperante, e non siamo così distanti da quel Medio Oriente che disprezziamo…normale che ciò si rifletta sul disco.

Ormai siete all’ottavo, nono disco (ottavo, non contando Wish I Could Dream It Again, riedito nel 2002 come Dreams D’Azur), chissà quante volte vi avranno detto “questo è il disco della maturità!”. Tenendo conto che ad ogni tour bisogna modificare la scaletta per mediare tra esigenze del pubblico e necessità di promozione, quali brani ritenete meno rappresentativi dei Novembre attuali?

M: Mah, non rappresentativi no, non ce ne sono, però esistono brani, ad esempio di Classica, che preferiamo non suonare più perché ci siamo stancati, li abbiamo rifatti mille volte; si rischia di perdere l’energia, l’entusiasmo nel suonarli. Questa volta abbiamo svolto un sondaggio con i fan, ascoltando le loro preferenze abbiamo portato in scaletta alcuni pezzi scelti da loro.

Se doveste scegliere un brano che rappresenta i Novembre di adesso?

C: A me viene in mente…non so, forse Bremen.
M: Ancora non lo so, del disco nuovo ho le preferite, ad esempio mi piace tantissimo Australis, ma mi rendo conto che sia una mosca bianca all’interno dell’album. Forse Oceans of Afternoons.

In un’intervista hai fatto riferimento alla musica come linguaggio. Come si fanno a conciliare due linguaggi come musica e testo? Quale importanza dai, cosa viene per primo?

C: La musica viene prima, anzi, di solito viene scritta insieme ad una linea vocale, Massimiliano lo sa perché molto spesso gli mando direttamente i riff già accompagnati dalla parte della voce. Quest’ultima ha sicuramente la precedenza, i testi arrivano per ultimi. Noi abbiamo costruito un progetto che ha origine più nell’armonia che nel concetto, non si è mai partiti dall’idea di scrivere qualcosa su un certo argomento.
M: Il nostro approccio alla composizione è da chitarristi con una grande voracità musicale, tutti noi abbiamo idee differenti su una base vocale, un coro o su un arrangiamento…però principalmente si inizia dai riff, ricercandone un senso e un ordine per costruirci sopra il resto.
C: Per me, ad esempio, il riff è completo quando ha una linea, un coro sopra ad arricchirne la struttura; se non c’è pazienza, arriverà, spontaneamente.

Oltre al già citato Orwell e al filosofo indiano Jiddu Krishnamurti, quali sono state le vostre fonti d’ispirazione letterarie (e non)?

C: Guarda, in questi ultimi anni ho guardato tantissime cose su Internet; YouTube è una miniera di informazioni: documentari, testimonianza video e audio degli Anni Cinquanta, Settanta…Io mi faccio influenzare molto da ciò che riguarda la storia, l’archeologia, la scienza; sono anche molto appassionato di cinema. Purtroppo, letteratura davvero poco, sono sempre stato un asino.
M: no vabbè, pure io! (ridono)
Probabilmente la nostra cultura non viene dai libri, quanto dall’informazione.

Si è parlato molto di Agathae, un racconto lungo vent’anni. Come mai hai deciso di tirarla fuori soltanto ora?

C: Perchè ne abbiamo i mezzi. Mi sono reso conto che per poterla suonare ci sarebbe voluto un lavoro di squadra intenso, vedersi per un mese di fila solo per provarla; un pezzo del genere ha bisogno di sei, sette persone e noi eravamo appena tre. Avevamo bisogno di un computer come supporto di registrazione, perché a quel modo e quell’epoca non si poteva fare. Adesso che ho più padronanza del mezzo ed ho imparato a smanettare coi software ho avuto modo di concentrarmici sopra e con grande sorpresa sono riuscito a realizzare la canzone: le nostre parti strumentali generalmente sono – a mio parere – molto più semplici.
M: Per quanto lunghe, non arrivano mai ad un livello di complessità tale.
C: Inoltre è stato un lavoro di sperimentazione, io compongo con la chitarra classica, e la trasposizione all’elettrica con suoni distorti è davvero tutt’altra faccenda, c’è un lavorone dietro.

Mi pare di capire che siete persone molto pignole. Riascoltate mai i vostri dischi?

C: Sì, soprattutto a stesura ultimata mi ascolto il disco fino alla nausea, per poi non ascoltarlo più.
M: Io invece da pignolo me li ascolto, e tutte le volte dico “Merda, potevo farlo in questa maniera…!”
C: Io le evito ‘ste cose.
M: Tu non sai quante volte mi so’ roso il fegato…ma li ascolto comunque, per imparare, per capire cosa evitare in futuro, partendo dai lavori passati e come ci siamo evoluti. Ci sono stati casi in cui ci siamo resi conto di aver fatto delle scelte sbagliate, per inesperienza magari, però ha una funzione, è una cosa costruttiva, non ci è mai capitato di inorridire che so, per un rullante registrato male. Tanti lo fanno, noi no…
C: No no, io pure, ci sono un paio di dischi che non ascolto più per quel motivo! (ride)

Un’idea sarebbe comportarsi come nel caso di Wish I Could Dream It Again.

M: Sì, però lì era dovuto anche dal fatto che non potevamo più mettere mano al master originale. Però vedi, anche lì puoi creare malcontento. Alcuni fan della prima ora ci rimproverano Dreams D’Azur.Qualunque cosa tu faccia rischia di incontrare favori e critiche.

Vi capita mai di comporre qualcosa di non adatto ai Novembre?

M: Tutti i giorni! Per me è uno sfogo, e non sempre il risultato è inerente al gruppo. Ho cominciato a suonare prestissimo, compongo a priori e sperimento sulle cose nuove che mi vengono fuori. Non è mai capitato che un riff creato per i Novembre venisse abbandonato, sono sempre stati sviluppati.

Qual è la critica che vi muovono più spesso?

M: Una cosa che ho sentito dire spesso è che siamo “troppo poco metal” per gli ascoltatori del metal estremo, oppure “troppo metal” rispetto al prog; ci hanno considerato né carne né pesce da questo punto di vista, però vedendo come è andato il mercato è stata una scelta quasi lungimirante.
C: Questo l’ho sentito anch’io. Poi gente che ci dice che ci siamo rammolliti, commenti in cui chiedono perché c’è il growl, e poi sotto gente che si lamenta perché sente troppi pochi growl! (ridono)

La copertina è, come al solito, di Travis Smith. Come fanno le vostre idee ad essere trasposte sul mezzo “fisico”?

C: Io gli mando le mie idee, dei .jpeg, anche degli schizzi, poi ci lavora sopra lui. Questo artwork è stato impegnativo, le idee che ci aveva mandato non ci soddisfavano e gli ho dato un ultimo suggerimento. Gli dissi di fare una versione sua della Venere di Botticelli, e lui è arrivato con questo disegno.

Si dice di te che non ami esibirti. Ora che l’onere è passato al chitarrista Giuseppe Ferilli, come ti senti?

C: Sollevato. Io non sono mai stato un chitarrista, usavo la chitarra in funzione della composizione. Sono partito come bassista, poi sono finito alla chitarra…ma così a freddo non ce l’avrei fatta a sostenere un tour, inoltre c’è una grande differenza di strumentazione tra me e Massimiliano, negli anni lui si è fatto una strumentazione professionale…io ho una pedaliera giocattolo, con la sua non saprei dove mettere i piedi. Una differenza abissale. Giuseppe, invece, è molto simile a Massimiliano, sono cultori dello strumento.

Avete fatto un solo video, quello di Anaemia. Perché?

C: Perché per me, fino all’altroieri (ossia dieci anni fa), il video era per i gruppi mainstream, completamente fuori dalla nostra portata. Adesso è molto più accessibile, e si possono realizzare cose molto carine senza spendere un capitale. Abbiamo realizzato il video di Annoluce con una regista romana, ed ospite, come nell’album, Anders Nyström dei Katatonia; ha creato un plot molto interessante.

Quindi ora vi state avvicinando al mainstream?

C: “Mainstream” è una definizione azzardata al giorno d’oggi, tutti i gruppi grossi si sono rimpiccioliti. Fra poco beccheremo i Metallica per strada…Pecco d’ambizione. Tutto quello che viene, viene, senza forzare il corso degli eventi.
M: Non abbiamo mai sforato oltre la nostra nicchia. Quando abbiamo iniziato, il nostro genere era underground, non ha mai spopolato; le nostre necessità erano altrettanto piccole. Però non abbiamo girato il video con la convinzione d’essere arrivati, semplicemente ci piaceva il progetto, lo ritenevamo interessante.

Avete iniziato nel periodo delle fanzine. Cosa era migliore nel rapporto con le band e coi fans?

M: Il bacino d’utenza s’è ampliato, però a scapito della veridicità dei rapporti: una volta c’era più corrispondenza.
C: Il fatto che uno impiegasse il proprio tempo per scrivere una lettera, acquistare il francobollo, spedire la busta, rendeva il rapporto più genuino; era anche un dispendio di denaro. Un filtro che toglieva di mezzo tanti perditempo, che grazie a questi ostacoli erano fuori dalla scena. Una selezione naturale che oggi non c’è più, perché si registra con un computer e basta nulla per mettere il proprio disco su Bandcamp e dire che hai un gruppo. Oggi è pieno di millantatori, perché il processo è diventato molto più semplice.

Avete registrato soltanto due cover, The Promise degli Arcadia (side project dei Duran Duran) e Cloudbusting di Kate Bush. Con gli ascolti di adesso, cosa vorreste coverizzare?

M: Sicuramente una dei Radiohead, gusto personale.
C: No dai, i Radiohead no. Un pezzo da mettere in un disco, magari gli Smiths, che piacciono pure a te…oppure qualcosa di un gruppo totalmente avulso dal metal come i Dead Can Dance.
M: L’abbiamo pure fatta!
C: Si, magari un giorno la tiriamo fuori.