La storia dei Raven inizia quarantuno anni fa in quel di Newcastle upon Tyne, cittadina britannica che tanti personaggi ha regalato al mondo dell’arte (da Cronos a Mr. Bean, come riassunto nella recensione pubblicata su questa webzine durante la scorsa estate), compresi i fratelli John e Mark Gallagher, fra gli antesignani della New Wave Of British Heavy Metal ma purtroppo finiti ben presto in quella sorta di terra di mezzo in cui si sono ritrovati – a prescindere dal genere musicale – tutti quei gruppi che, per un motivo o per l’altro, non hanno avuto l’opportunità di spiccare l’ultimo balzo verso la notorietà «vera», quella di cui, ad esempio, godono band come Iron Maiden, Metallica o Mötley Crüe.
Ma chi appartiene alla vecchia guardia, come il sottoscritto, porta ancora nel cuore quei gruppi poi considerati «minori», intesi come «di non planetario successo» (Tygers Of Pan Tang, Satan, Lizzy Borden, Heir Apparent, Flotsam & Jetsam…) i quali, comunque, spesso non hanno mai smesso di sfornare dischi e macinare concerti, continuando a «crederci» non tanto per velleità di successo ormai probabilmente sopite, quanto per il piacere di continuare a suonare e proporre la propria musica. In tutta onestà bisogna riconoscere che per alcuni di quei musicisti la scelta migliore sarebbe stata appendere la chitarra al chiodo, ma in molti altri casi si è potuto assistere a carriere divenute pluridecennali senza che il tempo andasse ad intaccare la classe, l’ispirazione e la creatività di artisti di fatto entrati nella leggenda, anche solo per meriti acquisiti. Ecco perché l’occasione di intervistare i Raven poco prima del loro concerto al Legend Club di Milano (grazie all’agenzia KezzMe! Ltd., nella figura della gentilissima Pamela) è stato per me, più che un piacere, un onore. Perché Mark e John Gallagher e Joe Hasselvander rappresentano un esempio pratico di come, dopo oltre quarant’anni di carriera, si possa ancora scrivere ottima musica, suonarla magnificamente, affrontare un tour mondiale e sopportare la milionesima intervista…
Inizierei parlando del vostro ultimo album, che nella mia recensione ho definito una delle migliori uscite di questo 2015, forte di un grande suono, di una grande energia e di un approccio che mi ha riportato ai primi anni ’80, quando la NWOBHM era la “new big thing” del panorama musicale, e tutto questo dopo ben cinque anni dal vostro ritorno sulle scene con Walk Through Fire: cosa potete dirmi del presumo lungo lavoro che ha portato alla pubblicazione di ExtermiNation?
MG – Siamo stati molto soddisfatti dai risultati raggiunti da Walk Through Fire, da ogni punto di vista: critica, fans, tour… Ma non volevamo realizzare la fotocopia di quell’album, quindi ci siamo presi il tempo necessario per scrivere canzoni che fossero realmente “nuove”.
JG – È stata una scelta indovinata, perché ExtermiNation è uscito proprio come lo volevamo. È un album che non perde mai il suo impatto, in cui l’intensità non cala mai, e questo nonostante sia piuttosto lungo: insomma, quando arrivi alla fine non hai problemi a riascoltarlo dall’inizio!
Una curiosità. C’è qualche legame fra il brano Destroy All Monsters ed il live album del 1995?
MG – Il titolo! (precisazione: nonostante i pochi minuti avuti a disposizione per l’intervista, si è riso molto, e il merito è in gran parte di Mark, ndr)
JG – No, non c’è nessuna relazione. È semplicemente una canzone.
Torniamo agli anni ’80. Ci sono molte band nate in quel periodo ancora in attività, e ad ottimi livelli: penso ad Iron Maiden, Saxon – e Raven, ovviamente – ed è strano assistere al fenomeno di gruppi nati successivamente ma scomparsi in pochi anni, oppure ancora in circolazione ma incapaci di mantenere un livello compositivo quantomeno decente. Quale pensate sia la differenza fra voi e queste nuove realtà?
JG – Erano altri tempi, nel senso che la situazione era qualcosa di completamente nuovo. Ma eravamo tutti molto coinvolti, c’erano band autentiche, una grande spontaneità. E forse è proprio questo ciò che spesso manca, oggi.
JH – Si potrebbe dire che chi suonava lo faceva quasi solo per i fans, nel senso che era a loro che un musicista doveva innanzitutto rendere conto. Poi le cose sono ovviamente cambiate, ma è impossibile pensare di ricreare quell’ambiente, dal quale sono usciti gruppi che hanno realmente fatto la storia.
I Raven sono uno delle più pure dimostrazioni del significato di «Power Trio»: perché avete scelto questo tipo di formazione? E perché continuate a preferirla rispetto ad altre?
JG – Potrei dirti che si tratta di una questione di libertà. Se i chitarristi sono due, accade inevitabilmente che musicalmente si limitino a vicenda, soprattutto dal vivo, mentre una sola chitarra riesce a trovare tutto lo spazio che vuole, creandone inoltre per il basso, che si trova in primo piano e non relegato sul fondo del palco.
MG – In passato abbiamo preso in considerazione la possibilità di un’altra chitarra, così come di una classica formazione a cinque, ma alla fine abbiamo preferito restare così.
JG – Vedi, puoi mettere anche dieci musicisti su un palco, ma alla fine rischi di ottenere solo un gran disastro, quindi perché rischiare?
La scena Heavy Metal è molto cambiata in questi ultimi 30 anni, con nuove sonorità e una grande evoluzione nel songwriting, nelle direzioni musicali e nei mezzi a disposizione dei musicisti. Come giudicate questi cambiamenti? E qual è la vostra opinione sulla scena Metal in questo nuovo millennio?
JH – L’evoluzione della tecnologia ha aiutato molto i musicisti che sono arrivati dopo di noi, mettendoli nella condizione di avere da subito ottimi risultati in termini di suoni, di registrazione, di risultato finale. Oggi tutti sono in grado di registrare un buon disco, e forse è questo il cambiamento che ha inciso di più, a prescindere dalla qualità di un artista.
JG – Ci sono un sacco di buoni gruppi in circolazione, in grado di registrare ottimi dischi e di fare ottimi concerti, e questo anche al di fuori della scena metal (penso ai Rival Sons, per fare un esempio). Ma, se andiamo fino in fondo, alla fine la questione si restringe al classico scontro “good music/bad music”, tutto qui.
E riguardo i fans? Trovate qualche differenza fra gli headbangers della vecchia guardia e il nuovo pubblico?
MG – Sono diventati più rumorosi!
JG – Possiamo contare su tre generazioni di fans, e non possiamo non notare certe differenze. Oggi è tutto più veloce, compreso il consumo della musica, ed è piuttosto difficile trovare fra i più giovani un appassionato che colleziona tutti i dischi, i singoli, i live, i bootlegs, come invece era quasi normale fino qualche tempo fa. Ma è bello vedere fra il nostro pubblico gente di tutte le età, anche se devo dire che la vecchia scuola se la cava ancora bene!
La scorsa estate ho avuto occasione di intervistare Lemmy dei Motörhead, e abbiamo parlato del tour relativo al quarantennale della band. Ma voi avete celebrato lo stesso anniversario l’anno scorso (!), quindi vorrei chiedere anche a voi: cosa vedete nel futuro dei Raven?
JG – Non saprei.. Magari potremmo scioglierci e formare una tribute band (sono proprio fratelli, non trovate?, ndr)! A parte gli scherzi, semplicemente vogliamo continuare a suonare buona musica, lavorando bene e sperando di conservare la giusta ispirazione, sia perché ci piace farlo, sia perché siamo sempre felici di poter suonare davanti ai nostri fans in tutto il mondo, e penso che – tornando al tuo esempio – anche per i Motörhead valga un discorso come questo.
MG – Ci rendiamo conto che il Metal si è sviluppato in tantissime direzioni, seguendo nuove dinamiche, ma proprio per questo stiamo vivendo in un periodo positivo. È un bel tempo per suonare, e siamo certi che il vero Heavy Metal durerà ancora a lungo.
Strette di mano, fotografia di rito e via. L’impegno per un’altra intervista mi ha impedito di assistere all’esibizione dei Raven sul palco del locale milanese, nei cui camerini ha avuto luogo l’intervista il cui resoconto avete appena letto. Ma, a parte il rammarico per lo show perduto, resta la soddisfazione – oltre che per l’incontro con tre persone estremamente cortesi e disponibili – di aver constatato una volta di più come per la musica, e in particolare per il da me sempre amato Heavy Metal (quello vero!), sia sorprendentemente semplice originare sentimenti di gioia, di amicizia, di appartenenza, perché bastano tre ragazzi con una chitarra, un basso e una batteria (il talento lo diamo per scontato…) per creare tutto questo. Tre ragazzi come i fratelli Gallagher (quelli veri!) e l’immenso Joe Hasselvander i quali, pur prossimi ai sessant’anni di età, viaggiano da quasi un trentennio da un palcoscenico all’altro suonando brani vecchi e nuovi ed acclamati da nonni, padri e figli, un traguardo in ogni caso difficile da raggiungere se non si è in possesso di una forza (artistica, ma non solo) in grado di tenere sempre vivo il sacro fuoco dell’Arte, di uno spirito immune agli effetti dell’età (non solo anagrafica) e di una volontà (soprattutto creativa) realmente incrollabile.
Ecco perché mi piace immaginare che, dopo oltre quarant’anni di musica, i Raven si siano voltati almeno per una volta a gettare uno sguardo su un così lungo passato, sugli alti e sui bassi, sui successi e sulle delusioni. E che, dopo una rapida occhiata, abbiano salito la scaletta del palco per entrare ancora una volta in scena.
«… You’ve gotta Rock/Rock until you drop …»