Penso che negli ultimi dieci/quindici anni si sia persa la misura nell’utilizzare le parole.
Una qualsiasi cosa non è più «bella», è «strepitosa»; una squadra di calcio che viene sconfitta 5 a 0 non ha perso, è stata «asfaltata» (anche se questa è simpatica, devo ammetterlo…); un evento atmosferico appena fuori dalla norma non è più tale, è una «emergenza» (Studio Aperto insegna: emergenza caldo in Agosto, emergenza freddo a Dicembre…). Per non parlare degli imbarazzanti anglismi, dell’odioso «attimino», dell’indisponente «quant’altro» o del fastidiosissimo «assolutamente sì», e di tutte quelle presunte nuove «forme» che – oltre che usate a sproposito – in alcuni casi sono addirittura in contrasto con i crismi della tuttora bellissima lingua italiana.
Anche «leggenda» è un termine di cui spesso si abusa (pensate, che so, a Mourinho…), ma in ambito musicale, quando si parla di gruppi come Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath o Yes – tanto per fare qualche esempio – una simile definizione non è per nulla esagerata. Ecco perché quando il buon Nik Mazzucconi mi confermò l’intervista con Ian Paice (storico batterista dei Deep Purple, nonché unico elemento a far parte di tutte le incarnazioni del gruppo) prima del concerto che con la sua Band avrebbe tenuto presso il Druso Circus di Bergamo, lo scorso 15 Dicembre, una certa agitazione si era impadronita del sottoscritto. Se a questo aggiungete un allarmante sms durante il viaggio verso il locale, nel quale mi si avvisava che l’artista era in ritardo di due ore e che l’intervista si sarebbe fatta «dopo il concerto, se si riesce», capirete il mio stato d’animo, ulteriormente depresso dalla infinita coda di fans in attesa di una foto o di un autografo dopo lo show. Alle 00.51, quindi, raccoglievo le mie cose per abbandonare il campo, ma nel volgere di pochi minuti tutto cambiava e, ormai ben oltre l’una di notte, ho parlato con la leggenda…
Nel corso della tua carriera sei passato attraverso un’infinità di generi musicali, di nuove forme sonore come Progressive, Disco, Punk, Heavy Metal, Pop… Come hai osservato, dal tuoi punto di vista, il succedersi di queste voci? E ce n’è stata qualcuna che secondo te è stata importante per la “crescita” della musica?
È naturale che la musica si evolva, e ritengo di essere stato fortunato a poter osservare tutti i mutamenti che si sono succeduti in così tanti anni. Ogni epoca, anche se breve, ha il suo “suono”, così come ogni genere rappresenta un determinato tempo, un determinato periodo: tutto passa, cambia, si trasforma, ma fortunatamente ne resta la testimonianza, comunque importante, cosa che consente di valutare certe cose a distanza di tempo e con un’ottica diversa: per farti un esempio, quando arrivò alla fine degli anni ’70, il Punk non mi piaceva per niente, mentre invece ora mi diverto molto ad ascoltarlo, anche perché lo guardo da un’ottica diversa, e per questo lo “capisco” meglio.
Siamo in un nuovo Millennio, eppure vediamo numerose band che arrivano dagli anni ’60 e ’70 ancora in azione (penso a Deep Purple, Black Sabbath, Rolling Stones, Kiss…), un fenomeno impossibile in un’epoca come quella attuale, in cui un musicista diventa “vecchio” dopo tre o quattro mesi: pensi che ciò dipenda dall’evoluzione del music business, o dalle nuove generazioni di fans, o da qualcos’altro?
A prescindere dal lavoro fatto dai musicisti, sono i fans a creare la musica, nel senso che è il pubblico a determinare il successo o il fallimento di un artista, ed il fatto che a distanza di così tanto tempo certi gruppi siano ancora in circolazione dimostra che forse qualcosa di buono è stato fatto, e si continua a fare… Per quanto riguarda il music business, invece, è logico che ci sia, perché comunque la si voglia vedere la musica è diventata un “prodotto”, aspetto che per certi generi sembra essere rimasto l’unico obiettivo, purtroppo.
Una curiosità: che musica ascolta Ian Paice nella vita di tutti i giorni, che so, quando ti fai la barba, o mentre stai guidando…?
Non ho ascolti particolari, o “preferiti” se vogliamo, ma se proprio devo indicarne qualcuno, posso dirti che mi piace molto ascoltare i musicisti che hanno dato inizio a tutto, come Jerry Lee Lewis, o Elvis, e lo faccio per cercare di capire qual era il loro segreto, come hanno fatto a scatenare un fenomeno che ha davvero cambiato la musica, e che continua ancora oggi. Poi ascolto da sempre Jazz e, più recentemente, parecchio New Country, come Garth Brooks, Gary Allan, Brad Paisley…
Il 2013 ha visto l’uscita di un nuovo album dei Deep Purple – lo splendido “Now What?!” – che mi ha sorpreso per la sua freschezza, superiore a quella di molte release di formazioni decisamente più giovani: cosa puoi dirmi su questo disco?
È un disco che ci ha divertito molto registrare. C’era lo spirito giusto, condizione dimostrata dal fatto che i pezzi riuscivano alla seconda o alla terza take, quindi c’erano le condizioni ideali per fare un buon lavoro, e penso che ci siamo riusciti, sia nella scrittura dei brani che nel lavoro in studio: lo ripeto, sono state davvero belle registrazioni.
Con i Deep Purple hai da poco terminato l’ennesimo tour mondiale: c’è qualcosa all’orizzonte, nel senso di nuovi brani o prossimi tour, o è ancora presto per parlarne?
Effettivamente è un po’ presto, anche perché ci stiamo “riprendendo” dal tour: posso però dirti che al momento un eventuale nuovo album non rientra nelle scadenze più immediate. Per eventuali concerti, invece, si vedrà.
Thank you, Mr. Paice.
Già, grazie, Mr. Paice. Una stretta di mano, una foto insieme, e l’artista se ne va, accompagnato dal fido Paolo Sburlati (a proposito, grazie mille…). Risaliamo insieme l’angusta scala che porta al camerino, e ci salutiamo. Attraverso il locale ormai abbandonato dalla folla che lo riempiva fino a poco prima, mi fermo brevemente a chiacchierare con Alessandro Del Vecchio della nostra comune passione per l’AOR e dei prossimi gruppi che suoneranno in Italia, abbraccio Nik Mazzucconi, senza il cui aiuto e l’infinita disponibilità non avreste letto questo articolo (a proposito, grazie duemila…), e finalmente sono fuori.
È un po’ come quando finivo un concerto, con la tensione del palco che si dissolveva lasciando comunque tutta l’adrenalina in circolo. In un attimo sono passato dalla sconfitta alla vittoria (ricordate il Liverpool a Istanbul? Ecco…) e ho portato a casa l’intervista, ma non è tutto qui. La più grande incognita di questo lavoro è che non si sa praticamente mai con chi si avrà che fare, tanto più se si tratta di personaggi di questo livello, oltretutto indisposti dal ritardo dell’aereo, dal soundcheck saltato e con di fronte un uomo con taccuino all’una di notte dopo l’estenuante trafila concerto/autografi/foto celebrative. Eppure Ian Paice mi ha sorpreso perché si è rivelato più che disponibile, interessato alle domande, rispettoso del fatto che – in fondo – eravamo tutti e due lì a lavorare. Un professionista che, alla faccia dei 65 anni, della logica stanchezza e delle milioni di interviste che avrà rilasciato nella sua carriera, non ha avuto alcun problema a restare ancora un quarto d’ora a rispondere alle mie domande, lasciandomi gli appunti che ho rielaborato in queste pagine ma – soprattutto – l’impressione di aver conosciuto una persona che potrei definire solo con il termine «buona». Una leggenda buona.
Grazie. Mr. Paice.