Quando, nella lontana estate del 2017, intervistai gli statunitensi The Dead Daisies, colsi l’occasione per disquisire con John Corabi sul fenomeno dei cosiddetti «supergruppi», da me al tempo definiti nel conseguente articolo «formazioni composte da musicisti appartenenti a band di grande successo che decidevano di unire le loro forze – a volte per un solo disco, altre per qualcosa di più duraturo – sfornando prodotti di eccezionale qualità».
Nell’analisi avevo incluso anche la situazione italiana, tanto per cambiare desolante rispetto a quanto presente all’estero (particolarmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) e senza alcuna prospettiva di crescita. Eppure, anche nella scena tricolore qualche flebile segnale esiste, distante e sottile come quello di un quasar ma proprio per questo estremamente importante da captare, come ho potuto fare incontrando Alessandro Bissa, batterista e fondatore della band chiamata A Perfect Day insieme al chitarrista Andrea Cantarelli, che con il cantante Marco Baruffetti e il bassista Gigi Andreone rappresentano quanto di più vicino a un supergruppo si possa trovare nel panorama nazionale.
Gli A Perfect Day rappresentano un progetto parallelo a quelli in cui ognuno di voi è coinvolto, aspetto che necessariamente condiziona le uscite discografiche. C’è però da dire che ve la prendete piuttosto comoda…
In effetti tre uscite in otto anni non sono una produzione abbondante, ma – come hai detto – abbiamo tutti altri ruoli, dentro e fuori l’ambito musicale, quindi dobbiamo sottostare a certe priorità. Ci siamo formati nel 2011 e l’anno successivo siamo usciti con il primo disco, intitolato semplicemente A Perfect Day; ma per il successivo The Defeaning Silence ci sono voluti quattro anni, e altrettanti per il nuovo With Eyes Wide Open… Potremmo dire che la nostra cadenza è quadriennale, ma sarebbe troppo facile, anche solo alla luce delle tempistiche di lavorazione di questo album.
È stato un lavoro complicato?
La data di inizio lavori si può fare risalire addirittura al 2017, quando abbiamo consegnato le prime tracce a Marco Barusso, che si è occupato di ogni aspetto relativo alla produzione, ad eccezione del mastering affidato a Marco D’agostino. La lavorazione dei brani è proseguita fino al luglio del 2018, ma fra un rimaneggiamento e l’altro (oltre che per gli altri impegni delle figure coinvolte) il cantiere si è chiuso solo nel febbraio di quest’anno. Peccato che, subito dopo, abbiano chiuso anche noi!
Immagino che la pandemia abbia influito sui vostri programmi.
Non troppo, a dire il vero. Avevamo programmato di pubblicare l’album nel mese di agosto, ma viste le difficoltà che si erano create relativamente alla realizzazione dei video la scelta è stata di spostare il tutto a ottobre.
Gli A Perfect Day sono spesso associati al genere heavy metal a causa dei gruppi in cui sono o sono stati coinvolti i membri fondatori, su tutti Labÿrinth e Vision Divine; eppure il progetto non si può definire propriamente «metal», e ritengo che il nuovo disco lo mostri chiaramente. Non pensate che questa erronea associazione possa risultare limitante, o quantomeno condizionare la vostra proposta?
In effetti, uno degli obiettivi che vogliamo raggiungere con il nuovo disco è sfilarci il vestito da «metallari» che talvolta ci viene fatto indossare senza motivo. Sia chiaro, non si tratta di rinnegare alcunché: suoniamo ancora heavy metal e ci piace farlo. Questa, però, è una situazione differente, dal punto di vista delle sonorità così come da quello dell’approccio. A prescindere dal dato anagrafico, vogliamo mostrare che siamo «cresciuti», che possiamo muoverci anche attraverso dinamiche diverse da quelle che ci hanno permesso di essere conosciuti da un certo tipo di pubblico.
Quali sono, a tuo avviso, i dettagli da evidenziare in With Eyes Wide Open?
Rispetto al lavoro precedente, in questo album è stato maggiore lo spazio occupato in fase di songwriting da Marco, cosa che ha conferito un gusto più «americano» ai brani, fattore che ha favorito il processo di «distacco» dall’immagine a cui accennavo prima. Ritengo, poi, che la produzione si posizioni su livelli davvero eccellenti [definizione riduttiva: il disco suona da paura!, ndr], mentre è stato un onore poter contare su un grande artista quale è Giannis Nakos per quanto riguarda l’artwork.
Lo scorso 23 ottobre finalmente l’album è uscito, quindi mi trovo costretto a chiedere anche a te: come pensate di gestire l’attività live?
In questo caso ci troviamo accomunati a qualsiasi altro musicista, ovvero nel mezzo di un casino talmente grande da non vederne la fine. Il 2020 è stato un anno che speriamo di dimenticare al più presto, quindi i nostri sguardi sono già puntati sul 2021, che ci auguriamo riesca a riportare un po’ di normalità. In questa prospettiva stiamo cercando di trovare spazio nei festival estivi, in Italia e all’estero, cioè in quelle situazioni in grado di garantire una grande visibilità a una band e all’album che sta promuovendo, fermo restando che – a differenza del videoclip – il supporto fisico è ormai defunto.
Una sentenza definitiva!
Ma è un dato di fatto. L’esplosione di piattaforme come Soundcloud o Spotify ha dato il colpo di grazia al mercato discografico propriamente detto, che già versava in condizioni critiche. Il CD è dato praticamente per spacciato, mentre il tanto strombazzato «ritorno» del vinile in realtà è un fenomeno limitato che si rivolge a un pubblico di nicchia. E anche il meccanismo che si basa sul «faccio un disco così posso andare in tour» si è irrimediabilmente inceppato, perché di dischi non se ne vendono più. Dispiace dirlo, ma all’atto pratico incidere un album su un qualsiasi supporto fisico è diventato un costo che si può considerare superfluo, proprio perché il grande pubblico utilizza altri canali per ascoltare musica. Anzi, viste le nostre tempistiche, questo potrebbe essere l’ultimo disco «stampato» a firma A Perfect Day.
Hai accennato alla funzione ancora utile del videoclip, per voi concretizzatasi in Give It Away, pubblicato lo scorso settembre, e nel successivo All My Life, in Rete dal 16 ottobre. Ci saranno altre uscite in questo formato?
Dovremmo uscire con altri due video. Stiamo ancora ragionando attorno ai brani da presentare, così come ai tempi di pubblicazione, ma di certo saranno affidati alla regia di Simone Tarca, sotto la cui direzione ci siamo trovati benissimo.
Cambiamo argomento per un istante. Oltre che per l’attività musicale, sei noto anche per la direzione dell’accademia di musica Quintogrado, una realtà a mio avviso fra le migliori presenti sul territorio nazionale, come ad esempio dimostrato dall’essere affiliata a un’istituzione prestigiosa come il Conservatorio «Luca Marenzio» di Brescia. E, visto che è stato proprio nel tuo ruolo di direttore che lo scorso maggio ti ho interpellato per un reportage sulla situazione legata alla pandemia, vorrei approfittare per chiederti come e se qualcosa è cambiato in questi cinque mesi.
Le lezioni nelle nostre quattro sedi sono ricominciate solo a ottobre, ma devo confessare che abbiamo notato un certo «rallentamento» nel trend. Durante i difficili mesi primaverili siamo riusciti ad arginare il disastro attraverso la didattica a distanza, per la quale eravamo comunque già preparati e che si è rilevata efficace, pur con tutti i limiti del caso. Il fatto è che – nonostante la nostra attività sia da considerarsi fra le più «sicure» visto il carattere individuale delle lezioni e l’assenza di problemi legati all’utilizzo della mascherina – è ancora molta la paura determinata dall’incertezza della situazione, così come dalle voci contrastanti o dai più o meno motivati allarmi che a ciclo continuo vengono lanciati. E devo dire che, di fronte a tali problematiche, fattori quali la fisiologica mancanza di ricambio generazionale legata al sempre minore interesse per la musica da parte dei giovani (fenomeno che tocca ogni livello di questo settore) o le periodiche «ondate» che riguardano i vari strumenti (che acquisiscono notorietà magari grazie a un film e che condizionano la composizione del roster di insegnanti) passano quasi in secondo piano! Resta comunque il piacere di svolgere un’attività che considero più che appagante, che unisce il piacere dell’insegnamento all’estrema varietà del confronto con ogni singolo allievo, tanto da poter affermare che in tutti questi anni non mi sono mai trovato a ripetere le stesse cose. E anche questo significa «crescere».
Per concludere, cosa vedi nell’immediato futuro degli A Perfect Day?
Attualmente, niente! La situazione è alquanto precaria, quindi fare previsioni è pressoché impossibile, ancor meno pretendendo di stilare un programma dettagliato. È tutto in divenire, ogni giorno potrebbero arrivare nuove restrizioni, nuove limitazioni, nuovi divieti… L’unica cosa che al momento possiamo fare è analizzare l’accoglienza del disco in queste prime settimane di distribuzione, partendo poi dai dati raccolti per valutare in quale direzione muoverci per pianificare l’attività dal vivo. Il futuro, quindi, è da identificare con il 2021, sempre sperando che le cose finalmente si aggiustino.
Un atteggiamento fra i più diffusi, nei confronti dei supergruppi, è il considerarli una sorta di dopolavoro per rockstar annoiate che trovano così il pretesto per fare un po’ di casino in studio e in tour. Può darsi che talvolta ciò corrisponda al vero, così come è appurato che non tutti questi progetti mettano al primo posto la ricerca di nuove sonorità o di innovative forme di espressione. L’aspetto surreale della vicenda emerge però quando i critici che sminuiscono l’importanza di questi «convivî musicali» non si esprimono con la medesima veemenza verso altre realtà, ben più dannose per il mondo della musica. Per fare un esempio, è di pochi giorni fa la mia scoperta – grazie alla segnalazione di un amico musicista – dell’annuncio di un «casting per tribute band e cover band» nell’ambito della «ricerca di gruppi nuovi» da inserire in una trasmissione televisiva che eviterò di citare. Ora, non ho nulla contro questo tipo di gruppi, fermo restando che – almeno a mio avviso – l’interpretazione di cover dovrebbe essere consentita al massimo fino al conseguimento della maggiore età, per poi imporre l’obbligo di creare la propria musica, con l’unica deroga concessa a quei musicisti che suonando cover cercano di raggranellare i soldi necessari per pagarsi strumenti o sala d’incisione. Ma se ci ritroviamo con agenzie che promuovono selezioni per dare visibilità «a livello nazionale» a gente che suona canzoni altrui, allora qualche riflessione andrebbe fatta, particolarmente dai più o meno sedicenti «addetti ai lavori» magari impegnati a fare le pulci ai Mr. Big, ai Revolution Saints o agli Hollywood Vampires.
Tra le forme d’arte, la musica è l’unica realmente priva di confini, ed è per questo che risulta doloroso vederla ridotta a jingle di quell’immenso spot pubblicitario che è diventato il mondo, dove talento e creatività sembrano essersi tramutati in difetti, soprattutto agli occhi di un pubblico che è il primo responsabile di tale degenerazione. E solo quando (perché un tempo non era così) torneremo a vedere autentici musicisti godere della giusta visibilità, occupando spazi oggi destinati nel migliore dei casi a onesti mestieranti, allora sì che sarà un bel giorno.
Anzi, sarà un giorno perfetto.