SkeleToon – Harder, nerder, faster, stronger

SkeleToon – Harder, nerder, faster, stronger

Sul power metal

Non ho mai avuto un rapporto continuativo col power metal; se mi chiedeste aggiornamenti sul suo stato attuale, sarei vicina alla realtà quanto lo sono i Colli Euganei al Vatnajökull​. Per anni ho preferito alla gloria perpetua situazioni più marce – i maligni direbbero ​eterosessuali – toccando di rado quell’estetica alla ​Fire and Ice che piace tanto ai Cirith Ungol. Le mie rare escursioni musicali compresero per lungo tempo ​quell’album lì ​degli Helloween, qualcosa d’antologico dei Rhapsody e i Blind Guardian, ma vero è che se non ti piacciono i Blind Guardian, al posto del cuore invece del cassonetto hai direttamente Sandro Bondi.

Poi.

Poi, è successo che ​i miei amici metallari™ mi hanno portata a sentire un concerto degli Hammerfall. Un’esibizione de core, de panza e con una sostanza che, sebbene non riesca a rientrare nella corsia preferenziale dei miei ascolti, è riuscita a penetrare nel mio cuor di Tuscaloosa. Questo mi attrae del power metal, è un genere generalmente genuino, consapevole e tendenzialmente autoironico. Né più né meno di qualsiasi altro creatore di arte, l’artista power è un cantastorie che parafrasa il vissuto tramite concetti d’invenzione, e se finisce per essere definito “gay” o “happy metal” per qualche istanza di machismo noioso, perlopiù se ne frega o ​ci marcia pure sopra​.

Ho provato a trovare un esempio calzante usando i dinosauri: ​una buona fetta di mondo sa cosa siano, molti li conoscono, pochi ne parlano, quasi nessuno si sognerebbe di vivere la propria vita 24/7 vestito da Allosauro​. Il power metal gioca molto su questo, sull’alimentare la parte emotiva dell’ascoltatore evocando determinate atmosfere, dall’immagine alla scelta dei suoni.

Si può scherzare sull’uso e l’abuso di topos letterari appartenenti al fantasy, ma è un espediente narrativo che va (fortunatamente) scomparendo – basti guardare band non propriamente canoniche come Sabaton, Orden Ogan, oppure gli svedesi Dragonland, che a dispetto del nome parlano di tutt’altro (​qui​ trovate un estratto di “Cassiopeia”​, ​dall’album Astronomy​, 2007).

Sulla band, sul power metal e sull’essere nerd
 
Proprio come i gruppi citati poco fa, gli SkeleToon sono, a livello di contenuti, dei personaggi fuori dal canone. Più che metallari, dei ​nerdallari​: basti pensare che nel titolo di ciascun album è nascosto un ​easter egg semplice, ma piuttosto ingegnoso, rimandante al grande lavoro finale che la band concretizzerà tra qualche anno.

Con Tomi, cantante e autore, iniziamo l’intervista coi buoni propositi e andiamo inevitabilmente a parare su nerdate di proporzioni cosmiche (chi l’avrebbe detto?!) fino al consumo volontario di carne umana in Giappone. Non fate domande.

​Secondo te, perché la gente prende per il culo il power metal?

Non ho idea, forse per l’idea canonica che il genere suggerisce. Sai, i draghi, cose alla Rhapsody… tutte cose che alla prima occhiata potrebbero sembrare da sfigati, ma che in realtà denotano la volontà di narrare un proprio mondo, oltre che quella di suonare, e secondo me è una figata.
Bisogna essere dei nerd per capirlo (​ride​). Band come i Twilight Force vengono prese di mira perché sono estremizzate – volutamente – mentre noi sguazziamo nella presa in giro, è il nostro elemento.

​Tu che lo sei, come hai preso la popolarizzazione della cultura nerd avvenuta nell’ultimo decennio?

Questa massificazione è da una parte spiazzante, dall’altra efficace, perché contribuisce alla diffusione (gli stessi SkeleToon ne usufruiscono e alimentiamo questa “moda”) di un sistema che è comunque cultura e appartenenza. Chi era nerd prima di questa ondata, continua a far parte dello zoccolo duro della propria comunità. Forse, il rovescio della medaglia è che le nuove generazioni non dovranno più lottare per l’accettazione di sé stessi, perché non ci sarà lo scoglio dell’integrazione nel tessuto sociale.

​Cos’è stato a renderti un nerd?

Una volta non si chiamavano nerd, si chiamavano sfigati ed io sono sempre stato un po’ così, preferivo restare a casa a giocare ai videogiochi, piuttosto che andare a giocare a pallone. Infatti, a giocare a pallone faccio schifo (​ride​). Si potrebbe definire un desiderio di rivalsa, io facevo parte di una piccola cerchia di nerd che, come nei film degli Anni Ottanta, ha deciso di fare muro e di affrontare compatta le sfighe quotidiane prendendosi sul ridere; è un sistema che ti permette di diventare un po’ più forte. Amando il power metal, mi sono avvicinato alla musica e alla composizione. Le sfighe quotidiane ci rendono tutti un po’ supereroi.

Mi viene spontaneo chiederti cosa pensi della serie Stranger Things​.

Me ne sono innamorato a prima vista, è un pout-pourri di tutto ciò che ho vissuto: gli Anni Ottanta, i giochi di ruolo, il fronte comune dei ragazzini emarginati… è la mia infanzia. Come cerchiamo di fare noi nei nostri dischi, credo che anche Stranger Things voglia andare più in profondità di quanto mostri, dietro c’è molto di più. Prendi ad esempio ​To Leave a Land​, il pezzo del disco nuovo nel quale i Goonies pensano a quando dovranno lasciare i Goon Docks: letta nel contesto, puoi interpretarla come la struggenza di abbandonare il luogo dell’infanzia, dall’altro puoi leggerla con una chiave indipendente e può diventare una qualsiasi dichiarazione d’amore, senza la necessità di dover esplicitare. Un nerd deve fare questo, andare oltre la chiave di lettura immediata.

Molte persone non apprezzano l’ironia nella musica. Avete faticato a svoltare dall’ironia alla serietà?

Calcola che non doveva neppure essere un progetto dal vivo. Avevo creato questa band sulla falsariga dei Trick or Treat, già con l’idea di prendersi poco sul serio. Suonavo in un gruppo prog che faceva pezzi propri, col batterista degli Eldritch e il tastierista dei Domine; era un progetto talmente serio che ho sentito la necessità di fare qualcosa di più leggero. Dopo un mese ci ha contattati Revalve, è nata la band vera e propria, nonché il mio progetto principale.

Questa transizione l’abbiamo iniziata col secondo album, ​Ticking Clock​, l’intenzione era quella di essere molto più cupo, perché è un album di crescita, maturità. Il protagonista subisce delle perdite e capisce cosa vuol dire diventare grandi, avere delle responsabilità.

​Tu sei un papà, e negli ultimi album ha raccontato molto della crescita. La vita personale influenza la tua musica?

Molto. Innanzitutto, mia figlia è la mia regina, lei e mia moglie sono il mio mondo. Da quando sono papà mi è cambiata la percezione di tutto. In realtà mia figlia mi aiuta molto, le piacciono i Queen e ascolta quello che faccio. Succede a volte che in casa scrivo e provo un pezzo, se noto che lo ricanta o che le è rimasto in testa, lo uso come termine di paragone per vedere se qualcosa funziona.

Dello scorso album m’è piaciuta particolarmente Awakening, che si discosta dal resto dell’album.

Quella canzone l’ha composta Enrico, il nostro batterista, è in effetti un pezzo prog, sul quale ho messo le mani solo per le linee vocali. Ci è piaciuto talmente, che abbiamo deciso di inserire un brano di difficile digestione in ogni album, per far vedere che non siamo proprio dei grezzi. (Il brano gemello nel disco nuovo è When Legends Turn Real, ndA).

Parliamo del disco nuovo, They Never Say Die. ​Quanto contano gli ospiti in un album?

Chiaramente sono utili quando sei all’inizio, sono nomi più affermati che possono avvicinare il pubblico a noi. In ​They Never Say Die abbiamo deciso di fare qualcosa di teatrale; ci sono moltissimi ospiti, ma l’abbiamo deciso di proposito perché siamo tutti amici, è stato molto divertente.

Hanno partecipato al processo compositivo​?

Dipende. Ho registrato tutto il disco cantando anche le parti degli ospiti, e le ho inviate loro chiedendo cosa ne pensassero, se volessero fare delle modifiche, eccetera. Non hanno cambiato molto, ma hanno dato quell’aspetto personale che è bellissimo individuare nei brani. Morby (Chester Copperpot, il primo cercatore del tesoro di Willy l’Orbo) ha dato un contributo eccezionale e Alle ha stravolto una linea vocale che avevo costruito sulla sua voce, quindi altissima, e l’ha capovolta facendola scendere verso il basso…ed è molto più bella! Michele Luppi ha messo del suo e si distingue bene nel disco; Sara (Squadrani, degli Ancient Bards) che si è occupata dei cori idem. Io e Simone (Mularoni) abbiamo dato degli input, ma siamo stati felicissimi di vedere quale è stato il risultato finale. Ho quasi paura a scrivere un altro disco, perché mi sembra di aver raggiunto l’apice personale.