L’edizione 2016 del Fosch Fest, per la settima volta organizzata in quel di Bagnatica (BG), ha offerto nei tre giorni di durata un bill di livello stellare, con alcuni dei gruppi che hanno fatto la storia dell’heavy metal (Anthrax, Sacred Reich, At The Gates, Destruction), altri che la faranno (Skàlmöld, Fleshgod Apocalypse e… Enslaved!) e un contorno di band emergenti che hanno potuto esibirsi su un palco importante e di fronte a un pubblico numeroso e competente.
Non starò qui a rivangare le banali polemiche che hanno seguito il festival, né le problematiche che hanno causato l’annullamento dell’edizione di quest’anno. Mi piace però pensare che il ritrovare una di quelle giovani band sul palco di Strigarium – l’evento pagano giunto all’ottava edizione che, dopo l’enorme successo dello scorso anno, si terrà ancora una volta nella splendida e ormai istituzionalizzata area in località Bersaglio a Costa Volpino (BG) – rappresenti un’ideale continuazione quantomeno dello spirito del Fosch Fest, pur considerando le fondamentali differenze fra i due eventi, il primo prettamente musicale, il secondo maggiormente orientato verso contenuti culturali. La band in questione è nota con il monicker Atlas Pain, quartetto camuno-milanese composto da Samuele Faulisi (voce, chitarra, tastiere), Fabrizio Tartarini (chitarra), Louie Raphael (basso) e Riccardo Floridia (batteria) ed entrato in studio subito dopo il Fosch Fest per registrare il primo LP che verrà presentato ufficialmente fra pochi giorni e che sarà protagonista proprio a Costa Volpino nella serata del prossimo 7 maggio.
L’album si intitola What The Oak Left e – dopo un demo datato 2014 – segue Behind The Front Page, l’ep pubblicato nella primavera del 2015: come riassumereste questa costante crescita?
Il demo appartiene realmente a un’altra epoca, mentre l’ep ha voluto rappresentare una sorta di «biglietto da visita», quindi pensiamo che What The Oak Left sia il nostro autentico esordio. La fase compositiva ha avuto inizio circa un anno e mezzo fa, con la scrittura di nuovi brani e il riarrangiamento di due pezzi compresi nell’ep; nel frattempo abbiamo attraversato un importante cambio di line-up, entrando poi in studio per la preproduzione e, nell’autunno scorso, per le registrazioni.
Nei credits dell’album si trovano nomi importanti del panorama metal nazionale e internazionale: quale impatto hanno avuto queste collaborazioni sul risultato finale?
Dopo il lungo processo compositivo abbiamo preso decisioni che ritenevamo fondamentali perché l’album riuscisse esattamente come nelle nostre intenzioni. La scelta dello studio di registrazione è stata determinata dalla fiducia nell’esperienza di Fabrizio Romani e nella qualità degli studi Media Factory di Esine (BS). Il mastering, invece, è stato affidato a Mika Jussila, sicuramente fra i tecnici più quotati degli ultimi anni, come confermato dagli innumerevoli album realizzati presso i suoi Finnvox Studios. E anche l’artwork porta una firma importante, ovvero quella di Jan Yrlund, che fra le sue numerose realizzazioni può contare nomi del calibro di Korpiklaani, Impaled Nazarene e Manowar. Insomma, siamo molto soddisfatti del risultato finale, da ogni punto di vista!
A mio avviso gli Atlas Pain sono una delle innumerevoli band che vengono impropriamente gettate nel calderone del folk metal: come vi ponete nei confronti di questa ingannevole definizione?
Ascoltiamo folk metal, così come molti altri generi, ma non suoniamo folk metal. Non abbiamo né l’attitudine musicale né l’immagine propri del folk metal, e francamente riteniamo che questo essere incasellati in un genere di cui non facciamo parte ci danneggi doppiamente, perché se da un lato chi pensa di trovarsi di fronte una folk band resta deluso – sia su disco che dal vivo – dall’altro l’etichetta «folk» ci preclude contatti con realtà (locali, management, organizzatori…) che ci immaginano attrezzati di kilt e cornamuse, cosa che invece non siamo! Ci rendiamo conto di non essere i soli a dover fare i conti con queste semplicistiche generalizzazioni, ma talvolta la cosa può creare incomprensioni davvero fastidiose.
In effetti il disco offre differenti spunti, talvolta molto lontani fra loro: come siete arrivati a creare questa alchimia, peraltro molto ben equilibrata?
I nostri testi trattano diverse tematiche, quindi è come se ogni brano raccontasse una sua storia: anche per questo abbiamo conferito alle nostre sonorità una deriva quasi cinematografica, «hollywoodiana», che traspare dall’epicità pomposa di certi passaggi che arricchiscono l’evoluzione di un pagan metal liberato dalla sua peculiare staticità, plasmato in una nuova forma e integrato con elementi molto vari, che spaziano dagli arrangiamenti in chiave sinfonica a un approccio talvolta quasi pop, un lavoro di ricerca che ci auguriamo serva a distinguerci.
Una ricerca i cui risultati si potrebbero riassumere nel brano che conclude l’album…
In un certo senso White Overcast Line potrebbe essere il nuovo biglietto da visita degli Atlas Pain. È stata una scelta sicuramente ambiziosa e che qualcuno potrebbe considerare poco «commerciale», non essendo frequente il trovare un disco che si chiude con una suite strumentale divisa in sei movimenti per quasi dodici minuti! Sappiamo bene che difficilmente diventerà una hit radiofonica, ma questa traccia rispecchia al meglio ciò che oggi sono gli Atlas Pain.
Anche la vostra immagine è molto particolare, lontana da stereotipi, cliché o mode più o meno passeggere: in che modo si inserisce nel vostro messaggio artistico?
Probabilmente la conseguenza più importante legata alla nostra immagine è la dimostrazione della nostra volontà di non essere vincolati a un particolare genere, caratteristica che – tornando a quanto detto poco fa – cerchiamo di valorizzare anche nella nostra musica. Trovare un suono che sia personale e riuscire a distinguersi è l’obiettivo di qualsiasi musicista, ma anche il lato estetico può contribuire a sottolineare questo aspetto.
Mentre per quanto riguarda l’artwork?
La copertina rappresenta un passaggio, che può essere quello raffigurato fra l’inverno e la primavera così come quello fra una certa tradizione musicale e la sua evoluzione moderna, o – nel nostro caso – quello fra la musica che suonavamo due anni fa e quella che proponiamo oggi.
Il disco è uscito ufficialmente lo scorso 10 marzo per la storica etichetta Scarlet Records, quindi immagino che starete già preparando il live-set per promuoverlo: c’è già qualcosa in programma?
Il release party è programmato per venerdì 7 aprile presso il Legend Club di Milano, mentre la data di domenica 7 maggio a Strigarium rappresenterà in un certo senso l’apertura della stagione dei festival estivi, che ovviamente ci auguriamo piena di concerti. Nel frattempo, però, ci esibiremo sul palco del Locomotive di Darfo Boario Terme (BS), precisamente venerdì 21 aprile. Ci sono poi progetti per l’autunno e l’inverno, ancora in fase di costruzione ma che, una volta definiti, comunicheremo attraverso la pagina Facebook Atlas Pain, e il nostro sito www.atlaspain.it.
È già in circolazione un simpaticissimo lyric video: pensate di realizzare anche un videoclip?
Il videoclip rientra nei nostri programmi, e probabilmente riguarderà il brano To The Moon: non abbiamo ancora stabilito tempistiche precise, ma in linea di massima dovrebbe uscire entro l’inizio della prossima estate. Riguardo il lyric video di The Counter Dance, invece, abbiamo optato per una connotazione diversa dai classici prodotti del genere, puntando su una soluzione che riteniamo simpatica e originale, ma che in fondo fotografa ciò che realmente sono gli Atlas Pain: quattro amici che suonano divertendosi e che provano a far divertire anche chi ascolta le loro canzoni, sia su disco che dal vivo. E con l’uscita di questo disco e i concerti che seguiranno cercheremo di dimostrarlo. Anzi, ne siamo sicuri.