“The story I’m about to tell you happened long ago, in a land far from here. It is not yet time for you to know about its genesis…”
“La storia che sto per raccontarti è avvenuta molto tempo fa, in un posto lontano da qui. Non ti è ancora dato sapere la sua origine…”
Trailer di The Black Crystal Sword Saga
Correva il lontano 2008; i draghi erano scomparsi oltre le montagne, il metalcore regnava sovrano e la magia che scorreva nelle vene del mondo stava sgocciolando via a causa degli effetti devastanti della crisi dei mutui subprime. Il mondo del metal con archi e cori massicci era in un periodo di transizione, un momento successivo all’uscita di Tarja Turunen dai Nightwish ma prima della conclusione del periodo Turilliano dei Rhapsody in cui pareva che tutto potesse succedere.
In questa situazione qualcosa si muoveva in quel di Rimini. Nati giusto due anni prima, gli Ancient Bards avevano deciso di lasciar da parte le discoteche che il nome della zona evoca a noi comuni mortali per buttarsi in questo universo di profezie, spade incantate e eroi delle leggende. Armati di ottima tecnica e buona volontà, decisero di mettere in campo un progetto che sia destinato a durare. E ci sono pochi gruppi che partono con una volontà di durare così chiara: il loro primo EP si intitolava Trailer of The Black Crystal Sword Saga, praticamente un annuncio che il gruppo non aveva nessuna intenzione di mettere insieme una demo per poi sciogliersi pochi mesi dopo, ma che presto ci saremmo dovuti aspettare il lavoro completo.
Intanto un primo assaggio già c’era. Dopo l’introduzione narrata con orchestra e cori che fa da biglietto da visita del genere, The Birth of Evil introdusse definitivamente il mondo a quello che sarebbe stato lo stile degli Ancient Bards: chitarre aggressive di chiara ispirazione Rhapsodiana, ma che lasciano più spazio a sontuose orchestrazioni con un tono quasi clericale, sfruttando tonalità maggiori e chiusure da accordi sospesi. Un’ispirazione che sarebbe andata leggermente scemando in futuro, ma che è pienamente presente nei volteggi arpeggiati, con in aggiunta un’ottima voce femminile pulita e ultimo ma non ultimo un basso da spavento con una grande padronanza tecnica a cui è sorprendentemente lasciato molto spazio.
Four Magic Elements, Daltor the Dragonhunter e soprattutto Only the Braves ribattono su questi temi, avvicinandosi però più spesso a un power meno sinfonico e più tradizionalista, con un clavicembalo alla Stratovarius e una attenzione particolare a doppia cassa a manetta e chitarre in primissimo piano. Restano i cori (e un tocco di synth solistico), ma l’inizio è decisamente convincente; solidissimo e una chiara dichiarazione d’intenti, soffre ancora di punti di riferimento troppo evidenti, ma presenta già spunti di originalità su cui puntare nei lavori successivi.
Non è insolito che un gruppo riproponga i propri brani una volta che è in grado di dargli la produzione che meritano, e proprio questo hanno fatto i nostri riminesi, una volta che il loro debutto dal titolo chilometrico è stato registrato due anni dopo. Con The Alliance of the Kings – The Black Crystal Sword Saga, Pt I (2010) la produzione si alza di parecchie tacche, dandogli un respiro che decisamente aumenta di molto la godibilità dell’insieme di orchestra e doppia cassa, anche se oserei dire che mancava ancora qualcosina prima che il gruppo potesse raggiungere la maturità di cui era in cerca.
Il numero delle tracce raddoppia, seguendo sempre la strada già intrapresa con il primo EP, e sebbene si senta ancora una certa presenza di riferimenti espliciti (Nightfall in Icy Forest è un titolo che sembra citare esplicitamente Nightfall in Middle Earth (1998) dei Blind Guardian, anche se il pezzo in sé è un intermezzo corale orchestrato) il risultato è valido. Siamo ancora in quei terreni pienamente fantasy già esplorati dai gruppi che abbiamo citato, ma l’abbozzo di originalità che era presente in origine si sta sviluppando, e l’uso dei cori si rivela il cardine su cui costruire qualcosa di speciale. Degna di nota la ballad-poi-metal Lode al Padre, per un lavoro di chitarra acustica e archi che tocca anche generi meno pesanti e sfocia in un massiccio coro orchestrale per poi ritornare verso sentieri più conosciuti.
Il lavoro era valido, ma la stampa sembrava aver raggiunto un consenso: molto interessante, ma ancora un po’ acerbo e a tratti derivativo. Era chiaro però che, sebbene fossero ancora lontani dal capolavoro, gli Ancient Bards avevano già ingranato la marcia e, spinti da questa botta di velocità, non avevano nessuna intenzione di fermarsi presto. Passa a malapena un anno prima del rilascio di Soulless Child, secondo episodio della saga che decide di lasciar da parte il sottotitolo per concentrarsi sulla sua essenza.
Salto subito alla fine del disco per un annuncio di servizio: Through My Veins è un pezzaccio della madonna, e una delle cose migliori che abbia prodotto l’epic metal italiano. L’influenza iniziale dei Rhapsody (che in questo periodo stavano affrontando il difficile divorzio tra Turilli e Staropoli, ancora indecisi su chi avrebbe avuto la custodia dei figli) è lasciata da parte per qualcosa più vicino agli Epica, tirando indietro le svirgolate di arpeggi e i passaggi complessi a favore di qualcosa che colpisca in faccia e lasci il segno per ore. La struttura è semplificata in maniera intelligente, solidificando di molto la sua unità di intenzione invece di passare di sezione in sezione tra cori e giri di archi, e lo spazio per il virtuosismo è furbamente condensato in un assolo centrale in primo piano, invece di essere sparso in giro stile scia di briciole di pane.
La canzone è lunga, durando sui 7 minuti, ma non risulta mai noiosa e l’aggiunta di parti di scream ad opera di Gian Maria dei Dawn Under Eclipse spinge l’insieme su un gradino più alto, fungendo da filo conduttore per qualcosa di estremamente più solido. Il resto dell’album segue questo tipo di impostazione: nonostante la molto elevata lunghezza media il songwriting risulta più conciso e diretto, tenendo sempre presente i cori e gli archi che ne avevano caratterizzato il suono in passato. È una evoluzione in senso lato, limando le parti più grezze e concentrando il suono della band sui suoi aspetti caratteristici per poter creare uno spazio in cui gli occasionali elementi virtuosistici possano spiccare invece di far parte di un amalgama senza momenti di vera evidenza.
E di momenti virtuosistici ce ne sono per ogni singolo membro del gruppo, dall’acuto spaccavetri di To The Master Of Darkness al ritorno degli assoli di basso, una gradita rarità per il genere, che risulta l’elemento più impressionante dell’insieme quando ha lo spazio per far vedere che le quattro corde nulla hanno da invidiare alle sei (o sette o otto). La sopraccitata prima canzone (post-intro narrata) è un buon spaccato di tutti questi elementi, ma dal clavicembalo di Gates of Noland passando per il piano più trattenuto di All That Is True fino ai trascinanti archi di Valiant Ride, altro cavallo di battaglia dal tema principale memorabile e dalla struttura solidissima che conferma come l’esperienza fatta nei precedenti lavori sia stata analizzata con cura per poter togliere il grasso e le parti inutili dalla carne messa al fuoco.
L’originalità non è ancora estrema, soprattutto nel campo dei testi – vero tallone d’Achille per tutte le band epic metal, ma particolarmente problematico per chi, come i nostri compatrioti, non mastica l’inglese dalla nascita – ed è un fattore che la stampa nota, ma che in questo frangente non sembra preoccupare i Nostri più di tanto. Si possono fare le cose originali, oppure si possono prendere i canoni di un genere e spingerli al livello più alto possibile, e questa sembra essere stata la scelta fatta dal gruppo: meglio rifinire, ripulire e solidificare quello che già conoscono invece di cercare di reinventare la ruota.
Soulless Child resta ancora oggi uno degli album meglio realizzati della scena nostrana, e dopo la doppietta con l’album precedenti gli Ancient Bards si sono presi giustamente un periodo in cui fare tour e portare la loro musica a quante più orecchie possibili. Bisognerà aspettare il 2014 prima che qualcosa si muova sul lato creativo, ma con A New Dawn Ending il gruppo torna di nuovo sulla bocca di tutti, riaprendo le danze con la direttissima A Greater Purpose che fa tesoro di quella filosofia “poco ma buono (e lungo)” imparata dal gruppo. Ancora cori massicci, che presto si fanno sentire, una voce che si fa sempre più sicura man mano che il gruppo pubblica album, chitarre pulitissime e un basso sempre più prepotente formano il nucleo di questo lavoro.
Per quanto manchi, a mio parere, una traccia da spavento come è stata Through My Veins, l’intenzione di fare qualcosa di più conciso e memorabile resta, con Across This Life che esemplifica come una fase di scrittura costruita attorno a un riff solido come perno centrale possa portare ottimi risultati dal punto di vista della solidità.
Torna il piano lento in In My Arms, tornano gli onnipresenti cori e le prove vocali di alto livello, torna la batteria a elicottero; da un punto di vista stilistico siamo ancora molto vicini a quello che era stato realizzato tre anni prima, per quanto ancora più raffinato e sintetizzato nei suoi elementi fondamentali. C’è una sorprendente comparsata di Fabio Lione in The Last Resort a cui la separazione non sembra aver minimamente intaccato le corde vocali, e Showdown sembra seguire un’impostazione più vicina a una suite, con i suoi dodici minuti che attraversano movimenti diversi, ma risulta un po’ più difficile da digerire; e parlando di tirare le cose per il lungo, A New Dawn Ending tocca quasi i 17 minuti, una durata che – per quanto la canzone sia decisamente apprezzabile e contenga un riassunto della filosofia sonora del gruppo, da cori a chitarre a narrazione al ritorno del growl, che funziona quasi come una loro biografia musicale – è difficile da giustificare. Molto interessante, se non altro, per chi è appassionato del genere e intende sviscerarne caratteristiche e influenze.
La qualità è alta, e la produzione è assolutamente impeccabile, con la band che compie altri passi in avanti dal punto di vista del songwriting, ma l’impianto di base segue le idee già esplorate nel debutto e perfezionate nel secondo lavoro. A questo punto suppongo che la domanda sia una sola: se si ripete molto di quello già sperimentato in Soulless Child, il lavoro è in grado di offrire qualcosa di più rispetto al loro precedente o si tratta di una semplice continuazione? Difficile da stabilirlo, ma se fossi costretto a dare un giudizio direi che Soulless Child ha le tracce individuali che spiccano di più, mentre A New Dawn Ending ha una qualità media più alta, che non si concentra in singoli pezzi che fanno rizzare le orecchie ma eleva tutto l’insieme sonoro egualmente. Sono entrambi album di alto livello, e le preferenze sono dovute più a gusti personali che a giudizi vagamente obiettivi.
E poi? Dal 2014 ad oggi non pare esserci stato nulla di nuovo. La band ha girato il mondo, suonando su palchi di paesi diversi (Giappone incluso), ma l’intervallo tra secondo e terzo album è stato finora molto più lungo di quello tra primo e secondo album. In questo arco di tempo, spesso le band si interrogano su come proseguire la propria carriera: tolti i rarissimi casi di gruppi che esplodono e hanno la strada completamente spianata, lavorare in una band significa dover anche bilanciare i propri fondi, e per poter continuare il proprio percorso artistico gli Ancient Bards paiono averci voluto pensare a lungo. La conclusione a cui sono arrivati all’inizio di quest’anno è stata che l’unico modo possibile era di chiedere personalmente un aiuto ai fan, e realizzare il loro prossimo lavoro in crowdfunding.
Sfruttando Indiegogo, una piattaforma pensata per questo tipo di raccolte fondi, la band ha lanciato una campagna promozionale da manuale, creando diversi tipi di ricompense per chi decidesse di “investire” nel loro progetto e investendo in un video promozionale che spiegasse di cosa si tratta e offrisse ai fan la possibilità di contribuire, prenotando l’album in anticipo per poter pagare le spese di registrazione, mixaggio e di eventuali video e necessità d’immagine.
L’idea non è una novità assoluta. Dalla nascita di questi tipi di siti che permettono ai fan di finanziare i propri creatori preferiti, ce ne sono stati di musicisti metal che hanno tentato di usarli per poter portare avanti la propria musica in mancanza di possibilità economiche da sfruttare. La maggior parte ha fallito miseramente, ma ci sono stati dei risultati di alto livello, dai quasi diecimila dollari al mese che si portano a casa i Ne Obliviscaris su Patreon al titanico progetto degli Wintersun, che son riusciti a finanziarsi la prima parte della costruzione di un intero studio con 460.000€ tirati su in un mese. Gli Ancient Bards non puntano così in alto, mirando al minimo necessario per poter garantire un album coi controfiocchi: 17.000€, cifra magari alta rispetto alla media degli album ma necessaria per il loro tipo di musica, che richiede un lavoro di studio molto certosino.
Cifra che, al momento in cui scriviamo, è stata raggiunta in una manciata di giorni. Tutto il resto è grasso che cola, nella forma di obiettivi aggiuntivi tipici del crowdfunding, come un nuovo video o finanziamenti per i concerti. Ma il risultato? Il lavoro è in corso, e terremo assolutamente d’occhio la cosa per farvi sapere cosa ne pensiamo. Personalmente, auguro al gruppo il maggior successo possibile: il sistema del crowdfunding si è rivelato una manna dal cielo per molti creativi senza finanze, e diffonderlo ancora di più nel nostro paese sarebbe fantastico. Vedremo come vanno le cose; è un discorso molto più complicato del solo metallo, ma per ora per gli Ancient Bards sta funzionando alla grande. Se volete un album, un po’ di merchandising e la sensazione di aver contribuito, avete ancora poco meno di un mese per tirar fuori la carta di credito.